L’evoluzione della teoria dell’alienazione parentale
Fonte/Credits: La Legge Per Tutti 5 marzo 2020
In ambito psicoforense, il tema dell’alienazione parentale è uno dei più dibattuti negli ultimi anni. Numerose sono le pubblicazioni internazionali scientifiche a riguardo e, nonostante una copiosa giurisprudenza italiana di merito e di legittimità, nel 2020 la confusione su questo tema controverso continua ad essere tanta.
Gli autori, in questo articolo, descrivono lo stato dell’arte in Italia, evidenziando luci ed ombre di un processo psicologico così complesso che porta un figlio a rifiutare uno dei due genitori, all’interno di contenziosi civili di separazione, divorzio e affidamento.
Definizione di alienazione parentale
Occorre far chiarezza, innanzitutto fornendo una definizione chiara e precisa dell’Alienazione Parentale (in seguito AP) evidenziando che essa richiama un concetto giuridico declinato dal primo comma dell’art. 337-ter del Codice Civile:
L’alienazione parentale rappresenta la violazione, da parte di un genitore, del diritto del figlio di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con l’altro genitore e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Se si parte da questa premessa, è pacifico inquadrare l’AP nell’alveo del diritto e non della psicologia, alla stregua della capacità di rendere testimonianza (art. 196 c.p.p.), dell’incapacità naturale (art. 428 c.c.) e della capacità di intendere e volere (artt. 88 e 89 c.p.). Significati giuridici declinati dalle scienze psicoforensi anche in termini di ricadute psicologiche sulle persone minorenni coinvolte nei procedimenti penali e civili.
Ma, in tema di alienazione parentale, in che modo avviene la violazione, da parte di un genitore, del diritto del figlio alla bigenitorialità? Quali sono i processi psicologici e le di problemi relazionali che coinvolgono il sistema della famiglia divisa? Il rifiuto del figlio di incontrare uno dei due genitori è supportato da valide motivazioni oppure è condizionato psicologicamente dalla volontà di un genitore in particolare? Qual è l’impatto psicologico dell’alienazione parentale sui figli?
A queste domande è possibile rispondere se alla definizione giuridica segue la sua declinazione psicoforense:
L’alienazione parentale è possibile rilevarla solo nei contenziosi legali di separazione, divorzio e affidamento. Essa rappresenta l’impossibilità di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo tra genitore e figlio principalmente a causa dei comportamenti devianti dell’altro genitore incube. Tali comportamenti tendono a svalorizzare le capacità di comprensione e decisione del figlio fino a provocare un vero e proprio rifiuto di quest’ultimo nei confronti del genitore succube il quale rivestirà un ruolo sempre più passivo e marginale.
Nello specifico:
- il genitore c.d. “incube” esercita un’azione diretta sul figlio squalificando, allontanando e denigrando il genitore rifiutato a tal punto da portare il figlio a rifiutare qualsiasi tipo di rapporto con quest’ultimo e schierarsi totalmente dalla sua parte e lo fa mettendo in pratica numerose strategie manipolative esplicite e/o implicite nei suoi confronti, forte del rapporto stretto (a volte simbiotico) sviluppato con il figlio;
- di contro, il genitore “succube” non riesce a reagire di fronte a questo potere, si sente scoraggiato e abbattuto al punto da arrivare a credere di non avere più risorse per riuscire a riconquistare il legame con il proprio figlio, distratto talvolta più dal contenzioso con il proprio ex partner e dal bisogno estremo di far valere i suoi diritti e le sue competenze che dal rapporto con il figlio;
- il figlio, vittima di questo sistema, ma non per questo incapace di compiere delle scelte che gli condizioneranno la vita, a seguito delle numerose battaglie nelle quali viene coinvolto e dei conflitti interni che inevitabilmente in lui si generano, interrompe qualsiasi tipo di legame con il genitore succube e, non di rado, con tutta la sua famiglia d’origine, smettendo anche di “lottare” (perché troppo piccolo per capirne il significato e l’importanza) per il suo diritto ad avere e vivere entrambe le figure genitoriali per lui vitali ed essenziali per il suo benessere psicofisico.
Questo, in breve, la cornice delle dinamiche disfunzionali dell’alienazione parentale che si verificano all’interno di un contesto familiare alle prese con un contenzioso civile di separazione, divorzio e affidamento che non fanno altro che ostacolare l’integrità psicofisica del minore compromettendone l’autonomia decisionale.
Per tal motivo, nella definizione di AP viene incluso che: il processo psicologico dell’alienazione parentale determina nel figlio vittima, in relazione alla sua età e alla sua capacità di discernimento, una coartazione della sua volontà. L’alienazione parentale rappresenta la negazione del diritto del figlio alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione.
Il processo psicologico dell’alienazione parentale lo illustriamo nel dettaglio nel libro “Pingitore M., 2019, a cura di, Nodi e snodi nell’alienazione parentale. Nuovi strumenti psicoforensi per la tutela dei diritti dei figli, FrancoAngeli, Milano”.
L’alienazione parentale non è una sindrome
È necessario ribadire che ormai non si parla più di PAS (Parental Alienation Syndrome), perché, di fatto, l’AP non è una sindrome clinica.
Il suo assunto teorico è stato sviluppato dallo psichiatra statunitense Richard Gardner nel lontano 1985. Da allora, sono trascorsi 35 anni e in questo tempo le scienze psicoforensi hanno studiato e analizzato il fenomeno sotto tanti punti di vista: una parte della comunità scientifica internazionale si è spesa anche per annoverare l’AP all’interno del DSM-5 (dove si cita implicitamente questo fenomeno all’interno dei “problemi relazionali”, con il nome di “effetti negativi del disagio relazionale dei genitori sul bambino” con “alti livelli di conflitto, disagio e denigrazione”) e, ultimamente, nell’ICD-11. Tentativi legittimi di studiosi della materia per fornire all’AP una cornice clinica chiara. Tuttavia, al di là della sua possibile inclusione in un manuale diagnostico, i tribunali italiani, ad oggi, riconoscono ormai questo fenomeno come la violazione, da parte di un genitore, del diritto del figlio alla bigenitorialità e al mantenimento dei rapporti affettivi con i familiari del genitore rifiutato.
Oggi, continuare a riferirsi alla teoria della PAS appare metodologicamente scorretto, così come continuare a richiamare in causa i “famigerati” otto “sintomi” di Gardner (successivamente diventati dodici, in realtà) privi di valenza scientifica in senso clinico. D’altronde è la stessa Cassazione, in una recente sentenza, ad evidenziare l’assoluta mancanza di certezza scientifica della PAS la quale non corrisponde ad un “disturbo” clinicamente “certificabile”.
Ma come mai questo impianto teorico è apparso così carente da dover esser riesaminato e messo in discussione?
In termini di PAS, tutta l’attenzione viene a concentrarsi sui comportamenti del genitore c.d. “alienante” e, non di meno, sul figlio – affetto da una diagnosi e portatore di vari sintomi – tralasciando, di fatto, le dinamiche relazionali esistenti tra i vari componenti della famiglia divisa. Come se, ad un tratto, quella famiglia, un tempo “sana”, venisse colpita all’improvviso da chissà quale malattia (rectius “sindrome”) in grado di paralizzare il soggetto coinvolto, neutralizzando anche il potere decisionale degli altri soggetti, anche essi coinvolti. Anzi, nella cornice teorica della PAS, in realtà, non vengono neanche menzionati “gli altri” finendo con l’attribuire automaticamente tutte le responsabilità del caso al genitore “dominante”, descrivendo i figli come soggetti privi di qualsivoglia capacità di discernimento e incapaci di autodeterminarsi.
La debolezza di tale teoria, infatti, risiede nel tentativo di “medicalizzare” ciò che in realtà appare un processo psicologico che andrebbe analizzato maggiormente in un’ottica sistemico-relazionale, intendendo l’AP non più come una sindrome, ma come un processo, un fenomeno relazionale e psicologico in cui devono necessariamente essere esaminati i comportamenti di tutti i componenti della famiglia divisa, tutti attori protagonisti delle dinamiche familiari.
Negli ultimi anni, infatti, i nostri studi si sono concentrati maggiormente sulla triade padre-madre-figlio, accendendo i riflettori non solo sul genitore “incube”, ma anche e soprattutto sui comportamenti del genitore “succube”. Questo perché, se è vero che le dinamiche adottate dal genitore dominante sono maggiormente riscontrabili e verificabili, è vero anche che i comportamenti del genitore rifiutato, seppur sottotraccia, risultano altrettanto importanti per l’instaurarsi delle dinamiche disfunzionali di AP.
Porre l’attenzione sulle risorse e sui limiti del genitore rifiutato, in questo genere di casi, serve anche come input al Tribunale impegnato nel dover prendere talvolta decisioni incisive come un affidamento esclusivo del figlio. In questo senso è necessario esplorare dettagliatamente tutte le relazioni presenti tra i membri familiari, considerando anche la possibilità per il genitore rifiutato di svolgere appieno la sua funzione genitoriale considerata la complessità della situazione.
In ogni caso, al di là della sua definizione, per emettere un provvedimento giudiziario, il Giudice ha bisogno di risposte in merito alla genuinità o meno del rifiuto del figlio nei confronti del genitore. Non vi sono basi scientifiche che affermano l’impossibilità per i bambini di subire condizionamenti psicologici da figure per loro significative nelle scelte quotidiane della loro vita. A maggior ragione, se si pensa a situazioni complesse come i casi di separazione, divorzio e affidamento, non è difficile comprendere come sia facile per un bambino, naturalmente dipendente da chi si pende cura di lui, ricevere pressioni e condizionamenti in un contesto che gli chiede necessariamente di schierarsi con l’uno o con l’altro genitore per evitare di soccombere di fronte a quelle intense e incessanti dinamiche relazionali disfunzionali.
Alienazione parentale e il suo uso strumentale
Spesso può capitare che l’AP venga utilizzata strumentalmente per ottenere vantaggi secondari. Nello specifico, alcune strategie difensive si appellano all’alienazione parentale (e alla “PAS”) per sostenere che il rifiuto del figlio nei confronti di un genitore sia causato dal comportamento irresponsabile dell’altro genitore.
In questo genere di casi, è necessario prestare massima attenzione per non incorrere in “falsi positivi”. La CTU, strumento privilegiato per rilevare una condizione di alienazione parentale, dovrebbe essere svolta attraverso una metodologia complessa che preveda colloqui individuali e congiunti dei membri della famiglia divisa, senza necessità di esaminare la personalità dei genitori o di somministrazione di test psicologici, in linea con l’assunto che non vi è correlazione automatica tra capacità genitoriale ed eventuali disturbi della personalità. Inoltre, l’esame di personalità dei genitori non sarebbe nemmeno previsto dalla normativa in tema di separazione, divorzio e affidamento.
È pacifico sostenere, inoltre, che innanzi a casi di violenza intrafamiliare accertata (a seguito di una sentenza) non si possa sostenere l’AP: se il figlio dovesse motivare il rifiuto nei confronti di un genitore riportando episodi accertati di violenza diretta o indiretta non si potrebbe certamente addebitare la responsabilità di tali dichiarazioni all’altro genitore.
Altro elemento da valutare è la ragione e la natura del rifiuto, nonché la presenza effettiva del rifiuto di un genitore, prima ancora di pronunciarsi in termini di AP. In questi casi, capita, ad esempio, di trovarsi innanzi a casi di forte conflittualità tra figlio e genitore a causa di un rapporto relazionale disfunzionale tra loro, ma in assenza di un rifiuto totale del genitore o della relazione con lui. Oppure innanzi a figli adolescenti prossimi alla maggiore età, il cui giudizio e le cui capacità di discernimento devono considerarsi sufficientemente autonome e libere.
Rilevata l’alienazione parentale, cosa fare?
In presenza di AP è necessario adottare preliminarmente tutti gli strumenti di natura giudiziaria per arginare e reprimere tutti i casi in cui un genitore irresponsabile violi il diritto alla bigenitorialità del figlio.
Trovandoci in un contesto giuridico, interventi coercitivi e coattivi (monitorati da Servizi Sociali e Tribunali) si sono spesso dimostrati non adeguati e/o peggiorativi di una condizione già di per sé complessa. In questo genere di casi, prevedere l’adozione di provvedimenti giudiziali determinati, in alcuni casi molto forti come l’allontanamento temporaneo della figura dominante dal figlio, risultano essere fondamentali e risolutivi per interrompere il condizionamento e tutelare la salute psicofisica del minore coinvolto, superando quell’impasse relazionale che impedisce ai genitori di (riconoscere e) sviluppare un riequilibrio delle funzioni genitoriali.
In tal senso, il Tribunale non può pensare di attuare provvedimenti risolutivi con improbabili e illegittimi imposizioni di trattamenti sanitari (sostegno psicologico, psicoterapie et similia) di natura psicologica nei confronti dei genitori e nemmeno attraverso i famigerati “incontri protetti” o “incontri vigilati”, in totale assenza di una metodologia chiara in cui non si sa “chi” deve fare “che cosa”. Gli incontri in “spazio neutro” possono produrre un irrimediabile deterioramento dei rapporti tra il figlio ed il genitore, con gravi conseguenze per entrambi.
È necessario rilevare l’alienazione parentale e disporre interventi giudiziari tempestivi in modo da evitare tutte quelle situazioni in cui qualsiasi tipo di intervento risulta inefficace perché tardivo, attivato magari a conclusione di contenziosi civili duranti anni.
Al di là dei dibattiti scientifici e non scientifici (spesso di natura ideologica) che animano questo tema e al di là della definizione che si vuole attribuire alla condizione in cui un genitore violi il diritto alla bigenitorialità del figlio, compiendo su di lui una vera e propria coartazione della sua volontà e compromettendone il sano sviluppo psicofisico, il Tribunale ogni giorno si trova a doversi confrontare con presunti casi di AP e, in ogni occasione, dovrebbe sempre privilegiare il punto di vista del figlio e non quello dei genitori, allontanandosi da quella visione adultocentrica per anni favorita. In tal senso è necessario e doveroso valutare le sottili dinamiche relazionali della famiglia divisa sempre attraverso gli occhi del figlio, poiché ciò che per un adulto appare chiaro e scontato, per un bambino risulta complicato, incomprensibile e, soprattutto, doloroso.
Non va dimenticato che gli studi e le ricerche compiute anche in ambito nazionale su questo fenomeno hanno dimostrato che la perdita di contatto con un genitore rappresenta un grave fattore di rischio per lo sviluppo, essendo in grado di determinare a distanza di anni serie difficoltà del funzionamento psicologico e adattivo sino a veri e propri disturbi della personalità e rappresentando quindi, visto l’aumento della casistica, un vero e proprio problema di salute pubblica. Gli interventi ed i provvedimenti a riguardo vengono quindi ad assumere una valenza preventiva.
Alla luce di queste osservazioni, possiamo fissare dei punti fermi in tema di AP.
Considerato che rappresenta la violazione di un diritto del figlio è possibile rilevarla solo all’interno di un contesto giuridico ed esclusivamente nei procedimenti civili di separazione, divorzio e affidamento. Non è possibile, perciò, rilevarla nei contesti dei servizi sociali, del SSN (CSM, Consultori et similia) oppure nell’ambito clinico privato.
È il Tribunale che deve rilevarla, possibilmente supportato da una CTU.
Non essendo una sindrome e non trovandoci in un contesto clinico, i conseguenti trattamenti psicologici per superare il rifiuto del figlio nei confronti di un genitore possono essere avviati solo successivamente alla rilevazione e all’accertamento dell’AP, quando il contenzioso civile è terminato.
Non può esserci AP quando è presente una violenza da parte di un genitore nei confronti del figlio.
Bisogna agire tempestivamente, ovvero prima che la situazione si radichi e si stabilizzi.
La maggior parte delle critiche rivolte all’alienazione parentale provengono da posizioni ideologiche prive di qualsivoglia base di competenza in materia psicoforense e in diritto di famiglia. L’AP è una condizione psicologica e un problema relazionale in cui il genitore rifiutato può essere sia la madre, sia il padre.
Marco Pingitore (Psicologo-Psicoterapeuta), Alessia Mirabelli (Psicologa), Giovanni
Battista Camerini (Neuropsichiatra Infantile e Psichiatra).
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