Nel 1985, negli Stati Uniti, un oscuro psichiatra di nome Richard Gardner osserva uno strano fenomeno clinico, mai descritto prima nella letteratura psichiatrica. Si tratta di questo: alcuni bambini, figli di genitori separati, a un certo punto rifiutano uno dei due genitori. Decidono di non volerci avere più nulla a che spartire. Gardner, di fronte a questo fenomeno, costruisce una teoria che lo renderà famoso e impartisce a ciò che sta osservando un nome, come fanno gli astronomi che scoprono un nuovo corpo celeste. Il nome che dà Gardner al rifiuto del genitore è: sindrome di alienazione parentale, o Pas, acronimo di parental alienation syndrome.
Nella descrizione del fenomeno, tuttavia, il nostro psichiatra, che è anche tra l’altro un personaggio piuttosto discusso, commette due enormi errori. Il primo consiste nel tentativo di descrivere l’alienazione come una patologia. Ma chi sia il malato di alienazione, o meglio di Pas, non è chiaro. Perché è invece evidente che si tratta di un fenomeno che riguarda un intero sistema familiare, una rete di rapporti complessi e un gioco di identificazioni tra il bambino e i genitori.
Il secondo errore che fa è, se possibile, ancora più grave. Perché il primo “sintomo” che descrive è in realtà una colpa, ed esattamente una colpa della madre: una deliberata campagna di denigrazione che le madri farebbero nei confronti dei padri per convincere il figlio ad alienare (ovvero allontanare, distogliere, secondo il dizionario Treccani) i padri. Sono tempi in cui negli Stati Uniti domina il pragmatismo reaganiano e in cui i collocamenti dei bambini, a seguito di una separazione, sono quasi sempre presso le madri. L’iper-semplificazione del fenomeno trasformerà da qui e per sempre un fenomeno clinico nell’oggetto di una strana lotta politica, donne contro uomini, padri contro madri e, in tempi più recenti, destra contro sinistra.
Per questa ragione accade un fenomeno bizzarro in virtù del quale si può essere bollati di essere “a favore” o “contro” la Pas, fino all’estremo oggi di poter essere accusati di essere un “pasista” (sostenitore della Pas), come se avesse qualche senso essere a favore o contro l’influenza o l’alluce valgo. Inutile dire che, dati anche questi presupposti, nel corso degli anni nessun manuale psicodiagnostico internazionale, né il Dsm nelle sue varie versioni né gli Icd, decide di accettare l’esistenza dell’alienazione come patologia.
Tuttavia l’alienazione, come un insetto sgradevole ma resistente che sembra di avere scacciato ma continua a ritornare, non se ne va. Oggi, 47 anni dopo la sua invenzione, ancora se ne parla. Tra l’altro, a Milano succederà venerdì 20 gennaio, a Palazzo Reale. Il convegno si chiama “Non ti voglio più vedere”. Il sottotitolo accenna appena in caratteri più piccoli al rifiuto genitoriale stando bene attenti a non dire la fatidica parola.
Cosa è successo? E perché è questo convegno al quale si sono iscritte quasi 800 persone suscita oggi polemiche e preoccupazioni di pubblica sicurezza? Potremmo sostenere che vi siano stati due tempi nella storia di quasi due generazioni di genitori separati, tempi che si sovrappongono ampiamente e che creano in entrambe le parti la convinzione di dover proteggere i bambini da un altro che li danneggerà.
Nel “tempo uno” l’alienazione è diventata una meravigliosa scusa per accusare le madri di tutto il mondo. Per sfiducia, per paura, per vendetta o per semplice purissimo odio verso la propria ex moglie, l’accusa è sempre stata la stessa. Sei una madre alienante o una “madre malevola”. In questo modo tuttavia, l’alienazione diventava un’ottima spiegazione per occultare le gravi responsabilità di padri disinteressati o incapaci di esercitare un ruolo, ma soprattutto dei padri violenti e abusanti. Padri di fronte ai quali l’atto del rifiuto assume una connotazione non solo accettabile, ma talora perfino auspicabile.
Ricordo bene in un caso presentato in una vecchia trasmissione in onda su Raitre. Un bambino che raccontava che il padre lo puniva stringendogli la testa in una morsa da carpentiere: per quel bambino rifiutare i contatti con il padre può ben essere considerato un atto giustificato. In un tempo secondo, tuttavia, complici gli enormi cambiamenti culturali avvenuti negli ultimi anni, il clima è cambiato. Nel tempo di una nuova e benvenuta sensibilità verso la violenza contro le donne e i bambini, le associazioni femministe e i centri antiviolenza sostengono non di rado un’idea radicale. Non solo la Pas non esisterebbe come patologia, ma l’inesistenza della malattia si trasformerebbe in un negazionismo radicale del fenomeno tout court. Non esisterebbero quindi bambini cioè che rifiutano un genitore perché ha un odore strano o perché sono stati sgridati quella volta là.
Non ci sono più i bambini che rifiutano il genitore senza avere ottime ragioni per farlo. Secondo questa seconda versione della faccenda, non meno ideologica della prima, la parola del bambino che rifiuta il genitore dovrebbe essere presa per buona tout court. Le sue dichiarazioni sarebbero incontrovertibili indipendentemente dall’età, dalla capacità di discernere, dalla naturale suggestionabilità del fanciullo all’ambiente che lo circonda.
In due recenti sentenze, la prima sezione civile della Corte di Cassazione non solo ha sancito l’inutilizzabilità del termine alienazione nelle consulenze tecniche che riguardano le separazioni conflittuali, ma ha anche reclamato l’esigenza di espellere qualunque concetto che in qualche modo e in qualche misura possa esservi associato. Il clima è oggi arroventato come non mai. Il Garante Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Lombardia, sommerso dalle proteste dei cittadini, ha dovuto istituire un tavolo di lavoro sul rifiuto genitoriale. Oggi risulta impossibile qualunque discussione che riguardi questa tematica: lo spazio per la parola è quasi annullato. Eppure avrebbe senso farsi delle domande. Ancora, o forse per la prima volta.
Ad esempio: il fenomeno esiste? Esiste cioè una condizione in cui un bambino rifiuta il contatto con uno dei propri genitori per ragioni non motivate da violenza o grave incuria? E quando un rifiuto è “immotivato”? E ancora: abbiamo dati per dire se alla lunga fa male a un bambino annullare la realtà che lo vede figlio di quei genitori e non di altri? Se vogliamo, si tratta di decidere quando la cultura debba prendere il sopravvento su un diritto naturale il quale, chiaramente e sia detto senza dubbio, deve sempre e comunque avere dei limiti. Non basta essere genitori biologici per essere in grado di prendersi cura di un piccolo di uomo. Chi sa se si riuscirà a riportare questa discussione nell’alveo di una scienza non ideologizzata, dal quale è uscita quasi mezzo secolo fa per non farvi mai più ritorno.
Mauro Grimoldi (Criminologo, coordinatore scientifico Casa dei Diritti Comune di Milano)
19 gennaio 2023
Fonte/Credits: Il Fatto Quotidiano