Un fallimento italiano: esame di un caso

Il caso esemplifica come un iniziale perito non esperto, una madre disturbata cui viene consentita l’impunità, operatori che credono di saper fare di testa loro abbiano trasformato una situazione difficile in un caso impossibile, con gravissime conseguenze specialmente per i tre minori coinvolti.  La vicenda è estratta dalla omonima sez. 13.4 del libro “La sindrome di alienazione parentale” (Guglielmo Gullotta, Adele Cavedon, Moira Liberatore).

La moglie chiede la separazione giudiziale (metà 2000), in seguito ad una grossa lite con il marito e la successiva uscita di casa di questo. Il marito contesta i motivi adotti dalla moglie e chiede l’affido congiunto dei figli (14,10, 8 anni). Il Giudice Istruttore attiva una prima CTU, tendente a verificare la personalità di ciascun coniuge e dei figli, e a stabilire le migliori modalità di diritto di visita del padre, atte a mantenere un rapporto significativo con i figli.

In fase di perizia (che durerà sei mesi) emergono le prime “rivelazioni” dei figli maschi rilasciate al CTU di “toccamenti” da parte del padre, risalenti ai primi incontri dopo la separazione. La perizia si conclude evidenziando come: si ravvisi la necessità che i figli restino affidati alla madre e che la frequentazione del padre con i figli sia, per il momento, da escludersi. Si ravvisa anche come tutti gli interessati, (genitori e figli), necessitano di un aiuto psicologico sia individuale che di tipo mediativo. Nella perizia non si parla di una possibile presenza di Sindrome da Alienazione Parentale, anche se nella relazione peritale si possono individuare sia gli indici della Sindrome a livello medio/grave, sia le tecniche di indottrinamento e di denigrazione che la madre sta adottando per discreditare l’ex marito.
II giudice fa suoi i suggerimenti del perito e dispone un percorso di mediazione per i coniugi e l’attivazione di un intervento psicologico da parte dei Servizi territoriali di competenza, incaricando il CTU di vigilare che il programma venga seguito. Nel frattempo il padre lamenta di non vedere più i figli da parecchi mesi e chiede l’affidamento esclusivo di questi.  Un anno dopo il CTU comunica al giudice che: il programma predisposto con i Servizi non è mai stato attuato, in quanto la Signora si è sempre rifiutata di incontrare il marito ed ha quindi reclinato qualsiasi attività di mediazione, ma la Signora ha dato la sua indisponibilità a portare i figli ai Servizi prima della fine dell’anno scolastico.

Pochi giorni prima di tale data la Signora abbandona l’Italia con i figli, senza che il marito sappia dove poterla rintracciare. La fuga dura 15 mesi, fino a quando il giudice riesce a far ritornare in Italia madre e figli.  Il giudice richiede, quindi, una seconda CTU allo scopo di ricercare le cause che impediscono una normale relazione tra padre e figli e che tenga anche conto dell’elaborato svolto dal precedente CTU.
Le operazioni peritali si dimostrano subito estremamente difficili: la Signora si rifiuta anche di incrociare il marito o di stare nella stessa stanza dove questi era stato precedentemente. Non vuole assolutamente condurre i figli dal CTU, che li incontra in una visita domiciliare dalla quale emergono:

  • l’esagerato attaccamento tra madre e figli;
  • le condizioni logistiche non adeguate in cui i minori si trovano;
  • l’ostilità del figlio maggiore (17 anni) nei confronti del CTU e il suo stato psico-fisico palesemente sofferente.

Il perito individua nel caso in oggetto tutte le caratteristiche rilevate da Gardner nei casi di PAS di livello grave e puntualizza come la letteratura individui come unica possibilità di regressione della Sindrome, in situazioni di gravità come nel caso in oggetto, l’allontanamento immediato dalla madre e chiedeva quindi che il Tribunale adottasse dei provvedimenti urgenti in tal senso.

Pochissimi giorni dopo il giudice dispone l’affidamento dei figli di 13 e 11 anni ai Servizi sociali territoriali, con collocazione del maggiore presso una comunità sita in una provincia limitrofa e per il minore presso la famiglia di uno zio paterno.

La perizia si conclude individuando: l’incapacità attuale della madre a riconoscere i bisogni, sia fisici che psicologici, dei figli e auspica che questa si sottoponga ad un accertamento diagnostico di personalità (sempre rifiutato durante la perizia), e ad un eventuale percorso terapeutico, se necessario; l’urgenza che la figura del padre (la cui personalità non è risultata affatto negativa) venga ripristinata nella vita dei figli; la convinzione che l’affidamento ai servizi sociali rimanga per il momento l’unica soluzione possibile.
L’inserimento del figlio maggiore in comunità si rivela subito difficile, sia perché la comunità non è in grado di fare rispettare alla madre le rigide regole di accesso proposte, sia perché i responsabili della comunità stessa non sembrano condividere, o forse non sono convinti, che questa sia l’unica soluzione possibile per tentare di salvare il minore da un patologico rapporto con la figura materna.  Purtroppo la madre riesce subito a “infiltrarsi” all’interno della comunità e ad inficiare il lavoro da questa compiuto, con telefonate, visite improvvise, tentativi di fuga con il ragazzo. I responsabili della comunità si accorgono solo dopo parecchi mesi di essersi lasciati “irretire” dal comportamento manipolativo della madre.
La neuropsichiatra che, solo dopo molti mesi, comincia a seguire il ragazzo, porta avanti il caso in modo autonomo, rifiutandosi fin dall’inizio di confrontarsi con il CTU e con lo psicologo
affidatario del minore, e, alla fine, dichiara la sua incapacità a gestire il caso e la sua paura che il ragazzo, lontano dalla madre, e con la quale insiste di volere ritornare, possa arrivare a gesti
estremi. Nel primo anno trascorso in Comunità non è stato mai attivato un programma di riavvicinamento al padre, con la giustificazione che il minore si è sempre rifiutato anche di sentirlo nominare.
Il più giovane dei fratelli trova, invece, nella casa degli zii un ambiente dove, con un po’ di fatica iniziale, riesce a uscire dal rapporto simbiotico con la madre (che era emerso nei primi incontri protetti con questa dopo la loro separazione) e a riprendere il rapporto con il padre, che inizia autonomamente a cercare. In pochi mesi l’imbarazzo dimostrato dal figlio nei primi incontri, determinato presumibilmente dalle accuse di “abuso” mosse verso il padre, hanno lasciato spazio ad un affetto che era stato forse represso, ma che non si era mai veramente annullato.
Il Tribunale per i Minorenni (che era stato attivato a seguito della richiesta del padre di affido dei figli) vista la situazione del maggiore dei minori, che sembra non ottenere effetti positivi dalla
vita in comunità, ma anzi manifesta un disagio crescente, e che continuamente chiede di tornare dalla madre, decide di richiedere una terza perizia (2005) allo scopo di individuare le possibilità di soluzione del caso e valutare l’idoneità genitoriale. Nel frattempo il minore che era in Comunità ritorna a risiedere dalla madre.
La terza perizia rileva come la situazione sia oramai estremamente compromessa, ed individua come prioritario un intervento sulla madre, anche di tipo farmacologico.

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