Sebbene non (ancora) classificata ufficialmente come “malattia”, è da sempre avvertita la potenzialità distruttiva della Sindrome di Alienazione Parentale. Nonostante la vasta diffusione del fenomeno, questo è ancora poco conosciuto dagli operatori del settore, ancora restii a sanzionare con la necessaria severità i comportamenti alienanti. Nei suoi studi, Gardner dimostrò che con la drastica riduzione del tempo trascorso col genitore alienante, guariva la totalità dei minori. La sua tesi era dunque volta a confutare la (tuttora) radicata opinione che se un figlio non vuole più incontrare l’altro genitore non c’è niente da fare, e imporglielo sarebbe contrario al suo interesse. Spesso tribunali ed operatori del settore propongono solo dei tentativi di recupero della figura alienata attraverso incontri e contatti ridottissimi: esattamente il contrario di cio’ che suggeriva Gardner. Questa decisione della Corte di Appello di Firenze apre la strada a possibili soluzioni alternative sottolineando le potenzialità fortemente dannose della sindrome di alienazione parentale ed evidenziando anche il ruolo fondamentale giocato dalla mediazione familiare nella risoluzione del conflitto.
IL FATTO
Nel procedimento di separazione pendente innanzi al Tribunale di Pistoia tra il sig. X e la sig.ra Y, con provvedimento presidenziale veniva disposto l’affidamento congiunto della figlia minore della coppia, con prevalente domicilio presso la madre; con il medesimo provvedimento, il Presidente, preso atto dell’atteggiamento della minore (di eccessivo attaccamento alla madre e di conflittualità con il padre) risultante dalla CTU, si asteneva dal fissare incontri periodici tra padre e figlia, ritenendo invece opportuno affidare ai servizi sociali le iniziative volte a favorire e ripristinare i rapporti della minore con la figura paterna.
Avverso il provvedimento presidenziale, il sig. X proponeva reclamo ai sensi dell’art. 708 c.p.c. davanti alla Corte di Appello di Firenze, lamentando l’omissione della regolamentazione giudiziale della frequentazione tra padre e figlia, delegata invece ai servizi sociali; il ricorrente si doleva in particolar modo della circostanza che il Presidente avesse basato la propria conclusione sull’esito della CTU senza tenere nella debita considerazione il fatto che la minore fosse in realtà fortemente condizionata dall’atteggiamento scorretto della madre.
Il ricorrente concludeva infine con la richiesta di trascorrere con la figlia almeno due giorni consecutivi nel fine settimana, due pomeriggi infrasettimanali e alcuni giorni nelle festività, offrendosi di accompagnare la minore alle attività sportive e ricreative e di assisterla nei compiti scolastici.
Consapevole della presenza di rilevanti ostacoli alla corretta attuazione di tali prescrizioni, lo stesso ricorrente richiedeva al giudice, come già fatto in primo grado, di avviare per la minore e per i genitori un percorso di terapia individuale, e successivamente una mediazione familiare.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI APPELLO
La Corte di Appello di Firenze accoglieva il reclamo, ravvisando esplicitamente nella fattispecie in esame un evidente caso di alienazione parentale determinata dalla madre nei confronti del padre.
Il giudice di seconde cure pertanto, oltre a fissare modalità e tempi degli incontri tra il padre e la figlia minore, accoglieva in toto le richieste del ricorrente invitando i genitori a:
- consentire alla minore un percorso di terapia individuale, cui avrebbero preso parte anch’essi, secondo quanto indicato nella consulenza tecnica d’ufficio;
- ad intraprendere un percorso di riflessione personale e una mediazione familiare “volta al dialogo costruttivo sulle questioni che riguardano la figlia”;
- a non disattendere i consigli della consulente;
la Corte richiedeva altresì ai servizi sociali competenti di vigilare sulla attuazione delle modalità di frequentazione stabilite in sede giudiziaria, riferendo al Tribunale al fine dell’eventuale emissione di provvedimenti coercitivi in caso di inosservanza.
La Corte condannava infine la madre alle spese.
LE MOTIVAZIONI
La recentissima decisione in commento offre interessanti spunti per riflettere sul rapporto tra regolamentazione giudiziaria dei rapporti di famiglia e Sindrome di Alienazione Parentale.
La Corte di Appello di Firenze ha dimostrato infatti attenzione e sensibilità verso un fenomeno di larga diffusione che sinora ha trovato poco spazio nelle aule dei Tribunali, riconoscendo espressamente come l’atteggiamento ostile del minore nei confronti di un genitore non può automaticamente risolversi nell’esclusione di quest’ultimo da ogni rapporto con il figlio, in nome di un “interesse del minore” non attentamente vagliato e ponderato.
La Corte di Appello infatti, consapevole della necessità di assumere immediate misure per contrastare la sindrome di alienazione posta in atto dalla madre ai danni del padre, ha escluso che tali misure “non possono certo avere l’effetto concreto di una conferma giudiziaria del rapporto patologico con la madre”; anzi, l’ordinanza contiene una velata “minaccia” di esclusione dall’affidamento materno qualora la madre “non receda immediatamente dagli atteggiamenti distruttivi in questione”, in considerazione dell’interesse della minore.
Il nodo centrale affrontato dalla Corte è sostanzialmente stabilire se l’interesse prevalente del minore e il rispetto della sua personalità sia incompatibile con l’adozione di provvedimenti coercitivi nei suoi confronti; a tale quesito i giudici rispondono negativamente, ritenendo che nel caso in esame la fissazione giudiziaria delle modalità di frequentazione con il padre non sia in contrasto con l’interesse del minore, ma anzi lo preveda proprio come fine ultimo.
La Corte precisa però che alla decisione giudiziaria devono affiancarsi il sostegno e la vigilanza dei servizi sociali nell’attuazione delle modalità di frequentazione dettate dal giudice, rivendicando la propria competenza a chiederne l’assistenza ex art. 344 c.c. richiamando la giurisprudenza per la quale tale potestà spetta non solo al giudice tutelare, ma a qualunque giudice che si trovi ad esercitare funzioni giurisdizionali che la legge abbia istituito a tutela della prole; tuttavia, essendo la pendenza del procedimento in esame puramente incidentale, i servizi sociali avrebbero dovuto riferire sull’attività svolta non alla Corte di Appello bensì al Tribunale davanti al quale è pendente la causa di separazione.
I giudici di appello pertanto hanno ritenuto opportuno dettare una disciplina (provvisoria) degli incontri tra padre e figlia, con l’assistenza dei servizi sociali; hanno ritenuto infine necessario rivolgere alle parti inviti e suggerimenti che, sebbene privi di una diretta sanzione giuridica, se disattesi potrebbero costituire circostanza valutata negativamente in sede di definizione giudiziale del conflitto tra coniugi.
CONCLUSIONI
Sebbene non (ancora) classificata ufficialmente come “malattia”, è da sempre avvertita la potenzialità distruttiva della Sindrome di Alienazione Parentale.
La caratteristica principale di tale sindrome, presente nelle sue varie gradazioni nel 30% delle separazioni, è la campagna di indottrinamentoda parte di un genitore detto “alienante” (per il neuropsichiatra statunitense Gardner, che per primo teorizzò la PAS, il genitore alienante è la madre in circa il 90% dei casi) associata al contributo personale e attivo da parte del figlio; il tutto in assenza di motivi obiettivi che spieghino l’ostilità da parte del bimbo verso il genitore “bersaglio”.
Queste le caratteristiche della PAS:
1 La campagna denigratoria (che inizia spesso con l’impedimento delle visite programmate dal giudice e la colpevolizzazione del genitore bersaglio)
2 sostegno al genitore alienante da parte del bimbo nelle situazioni di conflitto;
3 allargamento della denigrazione e del rifiuto di contatti alla famiglia del genitore alienato;
4 assenza di senso di colpa (anche in riferimento alla strumentalizzazione in campo legale: questi ragazzini non si fanno problemi ad accusare personalmente di fatti mai avvenuti il genitore bersaglio: violenze e abusi sessuali inclusi)
Nonostante la vasta diffusione del fenomeno, questo è ancora poco conosciuto dagli operatori del settore, ancora restii a sanzionare con la necessaria severità i comportamenti alienanti, forse ancora perché poco consci delle ripercussioni a livello psicologico e comportamentale non solo nel genitore alienato ma anche e soprattutto nel minore.
Nell’ordinanza in commento si paventa l’opportunità di sanzionare la madre con l’esclusione dall’affidamento, senza giungere alla sua concreta attuazione ma “minacciandola” in caso di persistenza nell’atteggiamento alienante; in tal modo i giudici affermano la compatibilità di una tale “forte” misura con l’interesse del minore, anche nelle ipotesi in cui quest’ultimo mostri un atteggiamento gravemente ostile nei confronti del genitore bersaglio.
Nei suoi studi, il “padre” della SAP Gardner dimostro’ che in assenza di terapia solo il 10% dei minori presentava una miglioramento spontaneo del disturbo; con il cambio della custodia, invece, o con la drastica riduzione del tempo trascorso col genitore alienante, guariva la totalità dei minori.
La tesi nel neuropsichiatria infantile era dunque volta a confutare la (tuttora) radicata opinione che se un figlio non vuole più incontrare l’altro genitore non c’è niente da fare, e imporglielo sarebbe contrario al suo interesse.
Spesso tribunali ed operatori del settore propongono solo dei tentativi di recupero della figura alienata attraverso incontri e contatti ridottissimi, destinati eventualmente ad aumentare poco a poco, in spazi neutri: esattamente il contrario di cio’ che suggeriva Gardner.
A ciò occorre aggiungere che in sede civile le inottemperanze (anche ripetute e protratte) al diritto-dovere di visita di rado comportano l’inversione della domiciliazione; lo stesso comportamento non viene sanzionato in modo efficace neppure in sede penale, in quanto questi episodi spesso si concludono con la archiviazione ritenendo di scarso peso questo genere di reato; in altri casi il rinvio a giudizio è disposto dopo anni dai fatti, quando il quadro di alienazione puo’ già essersi compiuto determinando conseguenze irreversibili.
La decisione della Corte di Appello di Firenze pertanto apre la strada a possibili soluzioni alternative sottolineando le potenzialità fortemente dannose della sindrome di alienazione parentale ed evidenziando anche il ruolo fondamentale giocato dalla mediazione familiare nella risoluzione del conflitto.