Vorrei iniziare il mio intervento prendendo spunto da un recente episodio che ha fatto molto discutere, suscitando forti reazioni sia da parte dell’opinione pubblica che in ambito istituzionale. Penso siano ancora nella mente di tutti le immagini di quello che è avvenuto davanti ad una scuola di Cittadella, in provincia di Padova, dove un bambino è stato prelevato con la forza, nonostante la sua strenua opposizione, per eseguire l’ordinanza del Tribunale che stabiliva l’allontanamento dalla madre e la sua collocazione in una comunità protetta, prima di essere affidato al padre.
(M.A. Visco Psicologa – Dottore di Ricerca in Processi della Genitorialità è componente del Comitato Tecnico‐giuridico dell’Osservatorio. Intervento tenuto al convegno “I bambini prime vittime”, svoltosi a Cosenza il 24 novembre 2012.
Fonte: http://lnx.paolonesta.it/attachments/article/2620/+il%20_minore_conteso.pdf)
Al di là di considerazioni rispetto allo specifico caso, la domanda che si impone di fronte a un episodio del genere è come si possa arrivare a un tale livello di tensione e violenza, dove evidentemente la conflittualità non è agita solo dai genitori, ma l’intero sistema sociale e giudiziario che vi ruota intorno sembra prendervi parte attiva, in un agire che non lascia spazio a una riflessione più attenta e profonda sui motivi che portano a tanto malessere, ma anzi perpetuandolo ed amplificandolo.
L’immagine del bambino afferrato per le gambe e le braccia dagli adulti, violentemente strattonato da una parte e dall’altra, sembra rimandare a un’altra immagine, quella del giudizio salomonico, dove l’unica soluzione possibile per soddisfare le pretese di entrambi i contendenti‐genitori è quella di sottoporre il bambino ad una lacerazione mortale, facendolo diventare vittima di una violenza inaudita ed ingiustificata.
Sappiamo come nell’episodio biblico il verdetto di Salomone abbia permesso di salvare il bambino, rivelando allo stesso tempo quale sua vera madre colei che è capace di rinunciare al bambino come un oggetto da possedere. Nella realtà invece, laddove la contesa tra i genitori appare insanabile, è purtroppo il bambino ad essere irrimediabilmente lacerato nel suo mondo interno, diviso tra due immagini genitoriali in continua lotta e contrapposizione. La rottura del legame tra i genitori e la conflittualità tra di loro vengono vissute dal bambino con profonde angosce, timori di abbandono, confusione e disorientamento
per l’assenza di punti di riferimento chiari e rassicuranti. Questa condizione di acuta sofferenza nel minore, foriera di possibili sviluppi psicopatologici, non è specifica delle separazioni, ma si ritrova anche in condizioni di non separazione, quando le relazioni familiari sono altamente danneggiate e gli adulti non sono in grado di gestire adeguatamente la crisi coniugale. Sembra importante sottolineare come l’elemento potenzialmente patogeno non sia dunque la separazione in sé, ma il tipo e la qualità di relazione che, sempre esistita nella storia di queste coppie, si sintetizza nel suo potenziale perverso e distruttivo a separazione avvenuta (Montecchi, 1996).
La conflittualità tra i coniugi infatti ha generalmente inizio già prima della decisione della coppia di separarsi, e continua di solito ben oltre la separazione, giungendo progressivamente ad una escalation. In questo contesto, i figli si trovano per lungo tempo a fare da spettatori di accuse ed aggressioni reciproche, spesso incastrati all’interno di dinamiche affettive fatte di ricatti e richieste di alleanze e collusioni, che li spingono a prendere di volta in volta le parti di uno dei due genitori sentendo di tradire l’altro. Il bambino di fronte ad una rottura così drammatica del legame tra i suoi genitori può provare senso di colpa, angosce di abbandono e vissuti di impotenza, costretto a subire una situazione che lui non ha voluto, e che spesso nemmeno si aspettava (pensiamo al senso di impotenza che comunica il grido del bambino di Cittadella, che si sente nel filmato “Aiutami zia…Come faccio?!”).
Se la separazione dei propri genitori richiede un vero e proprio processo di elaborazione del lutto, quello della perdita dei legami affettivi e delle abitudini di vita in precedenza acquisite, tale elaborazione appare un traguardo psichico irraggiungibile per il bambino nella misura in cui sono gli stessi genitori a non riuscire a elaborare il fallimento della propria relazione, il loro “divorzio psichico” (Dell’Antonio, 1993), e perpetuano patologicamente il legame alimentando la conflittualità. In questa impossibilità a separarsi psichicamente dei genitori, il minore della famiglia separata si trova così al centro di dispute e rivendicazioni, occupando un ruolo particolare in quanto rappresenta da un lato il simbolo dell’unione indissolubile della coppia, dall’altro l’elemento scatenante del conflitto. Il figlio di fatto costituisce un oggetto conteso come “proprietà” da acquisire da una parte o dall’altra, in un conflitto che spesso chiama in causa anche le famiglie di origine dei rispettivi coniugi ad esacerbare la tensione (Malagoli Togliatti, Lavadera, 2002).
Ciò che spesso accade nella separazione è che i coniugi, vivendo la fine del rapporto come una loro personale crisi in cui prevalgono senso di inadeguatezza e bisogno di ritrovare all’esterno conferme del proprio valore, finiscono per ricercare queste conferme nell’affermazione del proprio ruolo genitoriale, lottando per “accaparrarsi” l’amore dei propri figli. La conflittualità che molto spesso
accompagna le separazioni coniugali impedisce ai genitori di cogliere e rispondere adeguatamente ai bisogni affettivi dei propri figli, ignorandoli o distorcendoli in funzione delle proprie personali esigenze.
Uno degli scenari che si può presentare in situazioni di alta conflittualità è
rappresentato dal tentativo da parte dei genitori di manipolare, in maniera più o
meno consapevole, i figli allo scopo di ottenere il loro affidamento o comunque di
instaurare con loro un rapporto esclusivo,fino ad arrivare ad impedire all’ex coniuge di esercitare la propria funzione genitoriale. Questa dinamica familiare viene da alcuni autori inquadrata, nei suoi casi estremi, sotto il termine di “Sindrome da alienazione genitoriale” (Gulotta, 1998), con tutti i pro ed i contro che, a mio parere, un’etichetta diagnostica viene ad assumere. Se essa ci permette di inquadrare un fenomeno, portando alla nostra attenzione una delle possibili dinamiche messe in atto nelle separazioni altamente problematiche, essa rischia allo stesso tempo di essere applicata in modo forzato ed indiscriminato, prestandosi essa stessa a manipolazioni.
Vediamo meglio in cosa consisterebbe questa sindrome. Essa è stata categorizzata formalmente da Richard Gardner (1985) come un disturbo che insorge essenzialmente nel contesto di controversie sulla custodia dei figli. Sono diversi i sintomi che presenterebbe il bambino: in primo luogo la PAS si caratterizzerebbe per una campagna di denigrazione espressa dal bambino contro uno dei genitori, senza che essa abbia alcuna giustificazione in reali comportamenti di trascuratezza, mancanza o violenza da parte del genitore denigrato.
La PAS, secondo Gardner, sarebbe prodotta da una programmazione dei figli da parte di un genitore patologico (definito genitore alienante), un indottrinamento” al quale il minore aderirebbe (si parla al riguardo di un poco chiaro “contributo del minore”) che porterebbe i figli a perdere il contatto con i propri affetti e ad esibire un disprezzo ingiustificato nei confronti dell’altro genitore (definito genitore alienato). Le tecniche di programmazione tipicamente comprenderebbero l’uso di espressioni denigratorie riferite all’altro genitore, false accuse di trascuratezza, violenza o addirittura abuso, a cui il minore aderirebbe, mostrando di allearsi con il genitore alienante (per approfondimenti si può consultare Gulotta, 1998; Segura et al. 2006; Giordano et al. 2006).
Si tratta di una sindrome la cui definizione è piuttosto controversa, attualmente al
centro di grandi polemiche per il suo utilizzo semplicistico e indiscriminato, che non viene riconosciuta come tale dalla maggior parte della comunità scientifica e legale.
Alcuni autori al riguardo preferiscono parlare di “mobbing genitoriale” (Giordano,
2004) per indicare un quadro fatto di continue e sottili pressioni psicologiche sul
minore da parte di uno dei due genitori, che arriva ad ostacolare e compromettere il rapporto con l’altro genitore. Resta sempre a mio parere da stigmatizzare un uso acritico dei concetti diagnostici (e quindi anche della PAS) che si prestano a banalizzazioni ed a un loro utilizzo strumentale, soprattutto in un campo come quello giuridico in cui il bisogno di definizioni chiare e rigorose facilmente presta il fianco a riduzionismi e fraintendimenti.
Va considerato, per esempio, come il genitore “alienato” possa colludere, più o
meno inconsciamente, con i tentativi di estraneazione messi in campo dall’ex
coniuge, per poi utilizzare le difficoltà relazionali con il figlio come arma di ricatto,
accusando l’altro genitore di aver messo in campo un’azione di plagio nei confronti del minore. E che dire poi di quelle “alienazioni silenti” in cui uno dei due genitori scompare, defilandosi progressivamente dalla vita del figlio? Questi casi possono non arrivare in tribunale, dato che il conflitto non viene apparentemente agito tra i coniugi, ma l’assenza di un genitore non potrà che condizionare pesantemente anche in questo caso la crescita del figlio.
Insomma, come tutte le definizioni diagnostiche, quella di PAS poco o nulla ci dice delle dinamiche psichiche in gioco in quello specifico contesto familiare. E,
soprattutto, appare come una etichetta ad uso e consumo degli adulti. Secondo
questa definizione, ad essere alienati sarebbero i genitori. Ma cosa dire del
bambino? Cosa accade nel suo mondo interno? È a questo che bisognerebbe
prestare davvero attenzione, soprattutto nell’ottica di predisporre un intervento che lo possa aiutare. Sotto la pressione di uno dei due genitori il bambino può essere spinto a prendere parte attiva nello scontro, farcendo affermazioni che
assumeranno poi, in un contesto legale, la forma concreta di relazioni in cui il
minore parla positivamente di un genitore e negativamente dell’altro. Il bambino
per sfuggire a una situazione di tensione e/o per avere garanzie affettive finisce per allearsi con uno dei genitori, rifiutando l’altro. Questa perdita viene però vissuta come un lutto, causato da se stesso, che va ad accentuare i suoi sentimenti di colpa e di abbandono; ciò accresce allo stesso tempo il timore di essere abbandonato anche dall’altro genitore, generando legami invischianti e impedendo ogni possibilità di separazione psichica da esso.
È importante sottolineare come in questi bambini venga sì distrutta l’immagine di un genitore, quello screditato, ma anche l’immagine del genitore scelto ne risulta
immancabilmente danneggiata. Come osserva Montecchi (2006), infatti, il bambino, spinto ad esprimersi criticamente su di un genitore “non ne attacca solo la figura reale, ma anche la corrispondente immagine interna. L’altro genitore, tuttavia, nel suo potenziale danneggiante il minore, non si rende conto che, quando il figlio si accorge di essere solo usato, incrina la fiducia nei suoi confronti e danneggia anche l’immagine interna che ha di lui, con un vissuto di perdita per il danno che di fatto si realizza nelle immagini intere di padre e madre”. Per il minore “non è possibile crescere bene, avendo dentro se stesso l’immagine materna o paterna svalutata, disprezzata, eliminata o negata” (ibid.). Il rischio quindi è che il bambino “alieni se stesso”, cioè arrivi a negare vissuti, sentimenti, parti di sé che gli divengono del tutto estranei, non trovando un adeguato spazio di comprensione e accoglimento nel suo contesto affettivo.
Talvolta però l’atteggiamento di rifiuto nei confronti della madre o del padre può
esprimere non tanto il desiderio di allontanare un genitore non voluto o temuto
come effetto di un “plagio”, quanto piuttosto il bisogno di non essere abbandonato dall’altro genitore, sentito come più rassicurante. Può accadere per esempio che, nella situazione di grande disorientamento in cui si trova, il bambino possa avvicinarsi maggiormente al genitore più protettivo, che lo costringe in un rapporto di dipendenza infantile e di indifferenziazione (Dell’Antonio, 1993). Insomma, se il concetto di alienazione può essere utile per capire in primo luogo quelle che possono essere le conseguenze psichiche sul minore di una separazione “non riuscita”, l’attenzione deve essere posta alla complessità dei processi in gioco, perché soprattutto quando si ha a che fare con i minori non sono permesse semplificazioni. Il prezzo da pagare infatti è la perdita di elementi fondanti il processo di strutturazione psichica del soggetto in via di sviluppo, aggravando la condizione di sofferenza in cui il minore già si trova, contribuendo a creare le condizioni per lo sviluppo di una psicopatologia in età adulta.
Sempre nell’ottica della complessità, è importante evidenziare come non siano solo i coniugi ad agire il conflitto, ma in esso sembrano assumere una parte attiva e determinante le diverse figure istituzionali coinvolte nel momento in cui il processo di separazione prende il suo corso. Come osservano Segura et al. (2006) il sistema legale può determinare una vera e propria “Sindrome giuridica familiare”, in cui avvocati, giudici, periti e altri professionisti coinvolti assumono una responsabilità sul consolidamento di una condizione di alienazione genitoriale. Il rifiuto dei figli assume un significato fortemente rilevante se espresso in tribunale, dal momento che si scatenano a partire da ciò accuse, tentativi di dare spiegazione ed azioni varie intraprese nell’istanza giudiziaria allo scopo di risolvere il problema. “Il sistema giudiziario per il ruolo che occupa per mantenere ed incrementare la PAS potrebbe essere inserito nel contesto dell’abuso istituzionale” (ibid.).
In questo contesto, non pochi sono i rischi che un “indottrinamento”del minore (per riprendere una delle terminologie utilizzate nella citata sindrome da alienazione parentale) venga messo in atto da chi invece si dovrebbe occupare, sul piano legale ed istituzionale, di ristabilire un equilibrio, svolgendo una funzione di mediazione ed attivando le risorse necessarie per un recupero di un ruolo genitoriale da parte di entrambi i coniugi. L’iter giudiziario anziché dirimere le controversie tra i coniugi sembra in molti casi contribuire ad esacerbare le problematiche, colludendo con le tendenze della coppia a relazionarsi in termini di estremi contrapposti: giusto/ingiusto, vincitore/vinto, vittima/carnefice. A questo proposito appare rilevante anche il ruolo degli avvocati, che spesso inaspriscono il conflitto innescando una escalation simmetrica che va al di là delle intenzioni dei loro stessi clienti.
Sarebbero molte altre le considerazioni da fare sui diversi livelli in cui l’iter
giudiziario può colludere con la conflittualità della coppia, che finisce per utilizzare il contesto legale come ulteriore ambito in cui esprimere il suo potenziale perverso e distruttivo. I genitori, schierati in opposte fazioni, preferiscono illudersi di fare il bene del figlio attraverso la soddisfazione della loro vittoria, piuttosto che provare “a guardarsi dentro e a chiedersi cosa è sotteso a certe ostinate iniziative intraprese in nome del bene dei figli”(Montecchi, 1996). Si tratta però in questi casi di una occasione mancata da parte del sistema giudiziario, che rappresenta un elemento “terzo”, regolatore, e che in quanto tale potrebbe efficacemente aiutare queste coppie a distinguere la dimensione coniugale da quella genitoriale, recuperando il proprio ruolo di madre e di padre. In molte coppie “simbiotiche”, che non riescono a separarsi psichicamente, il ricorso alla legge può rappresentare sì una ulteriore arma
di ricatto e manipolazione, ma può anche esprimere la richiesta di trovare un punto di riferimento saldo, di ricorrere a figure che sappiano stabilire dei limiti ed
assumersi delle responsabilità laddove essi stessi non sembrano riuscirvi.
“C’è qualcuno che si assume la responsabilità di capire cosa sta succedendo
davvero? Se non il giudice, il CTU, chi?” mi ha detto una volta, nel corso del
procedimento giudiziario per l’affidamento del figlio, un padre giunto al colmo
dell’esasperazione.
Se i giudici, i tribunali e le varie figure istituzionali che vi ruotano intorno sono
troppo spesso chiamati a sostituirsi ai genitori in questo compito, essi stessi devono essere genitori responsabili. E ciò significa in primo luogo avere nella mente il bambino, senza confondere le sue esigenze con quelle degli adulti a vari livelli implicati.
BIBLIOGRAFIA
Dell’Antonio A. (1993), Il bambino conteso. Il disagio infantile nella conflittualità dei genitori separati, Giuffrè Editore, Milano, 1993
Gardner R.A. (1985), Recent trends in divorce and custody litigation. The Academy Forum, 29 (2):3‐7
Giordano G. (2004). Conflittualità nella separazione coniugale: il “mobbing” genitoriale, Psychomedia Telematic Review, 20 luglio 2004
Giordano G., Patrocchi R., Dimitri G. (2006), La sindrome di alienazione genitoriale. Psychomedia Telematic Review, 25 luglio 2006
Gulotta G. (1998), La sindrome di alienazione genitoriale: definizione e descrizione. Pianeta Infanzia, Questioni e documenti, n.4, Istituto degli Innocenti, Firenze
Malagoli Togliatti M., Lavadera A.L., (2002), Dinamiche relazionali e ciclo di vita della famiglia. Il Mulino, Bologna
Montecchi F.(1996), Bambini a rischio nelle separazioni conflittuali: l’abuso sul
minore. Psychomedia Telematic Review, 4 settembre 2000
Segura et al. (2006). La sindrome da alienazione genitoriale: una forma di
maltrattamento infantile. Psychomedia Telematic Review, 19 maggio 2011