Ripubblichiamo qui per assicurarne la massima diffusione l’articolo dell’avvocato Cesare Fossati pubblicato sul portale www.osservatoriofamiglia.it a commento dell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 9691 di data 24.3.2022.
1. Il caso
Una triste vicenda, come ce ne sono tante, di elevata, spasmodica conflittualità fra ex partner in lite per l’affidamento dei figli, di genitore escluso dalla vita del figlio, che richiama i concetti di rispetto della vita privata e familiare, il diritto relazionale che compete anzitutto al figlio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 8 CEDU, 315-bis, 317, 337-ter c.c., come pure a ciascuno dei genitori, e che tuttavia in concreto, stando alla lettura di consimili casi, può rimanere recessivo1 e nei fatti negato per anni2.
Nel caso in questione il padre non ha potuto esercitare, a partire dal 2014, per un periodo di tempo di ben otto anni, alcun tipo di frequentazione con il figlio dodicenne, che vive con la madre ed i nonni materni, ma è formalmente affidato ai servizi.
Il procedimento era stato introdotto dall’uomo nel 2015 ed il Tribunale per i Minorenni di Roma si era pronunciato una prima volta nel 2019, disponendo già allora l’allontanamento del figlio dalla madre, rea di aver ostacolato la relazione con il padre, ma il decreto del primo giudice era stato revocato, nel 2020, dalla Corte d’Appello. Quest’ultima aveva però contestualmente disposto una serie di interventi: dal percorso di sostegno psicoterapeutico per il minore, all’incarico al tutore di un progetto di ripresa dei rapporti padre-figlio, all’affidamento ai Servizi di tutta una serie di compiti, comprendenti l’attuazione e verifica del progetto, il monitoraggio delle relazioni intrafamiliari, il supporto alle parti. Tuttavia, a distanza di un anno, il Tribunale per i Minorenni non poteva che prendere atto che le plurime prescrizioni date dalla Corte erano rimaste disattese, ritenendo necessario assumere nuove e più drastiche misure, capaci di tutelare l’integrità psicofisica del minore, alla soglia dell’età adolescenziale, sul rilievo del sicuro pregiudizio a lui arrecato dall’assenza della figura paterna.
Pertanto al 3 giugno 2021, dopo sei anni dall’inizio del procedimento e ben tre perizie, il primo giudice del merito dichiarava la decadenza della madre dall’esercizio della responsabilità genitoriale, l’immediato allontanamento del minore dal contesto familiare ed il suo inserimento in idonea casa-famiglia, onde poter reintrodurre nella sua vita la figura paterna.
Le doglianze contenute nel reclamo, nuovamente interposto dalla madre, venivano però questa volta respinte dalla Corte d’Appello, la quale, al 9.07.21, eccepiva che
l’implementazione delle misure non aveva alcun intento punitivo verso la madre, quanto piuttosto era volta a tutelare l’integrità psicofisica del minore, al quale riusciva dannosa la mancanza del padre, quale irrinunciabile fattore di crescita e maturità, con conseguente conferma del decreto reclamato.
La madre impugnava pertanto in Cassazione. Quest’ultima, con l’Ordinanza pubblicata il 24.03.22, qui in commento, ha accolto alcuni dei motivi di ricorso.
La Suprema Corte ritiene che entrambi i giudici di merito non abbiano fatto buon governo delle norme che presiedono alla disciplina dell’affidamento dei figli, dei criteri che
realizzano il diritto alla bigenitorialità e ne prevedono l’attuazione, i quali troverebbero un limite invalicabile nell’esigenza di evitare un trauma certo, rappresentato dall’ablazione totale della figura materna nella vita del figlio.
Tutti gli esperti che si erano occupati del caso avevano riscontrato continue pressioni psicologiche sul figlio, quali conseguenza di comportamenti disfunzionali della madre, volti a denigrare ed alienare la figura paterna, il Tribunale stesso si era espresso nel senso che il minore appariva incastrato in un rapporto di lealtà con la madre che non gli consentiva
l’accesso al padre.
Ma per la Corte il giudice non può avallare acriticamente le risultanze delle perizie, per quanto siano tutte univocamente orientate a riconoscere il comportamento pregiudizievole della madre, e la motivazione non può limitarsi ad un mero rinvio al contenuto delle c.t.u. espletate.
Viceversa s’impone la prova rigorosa, attraverso i consueti mezzi a disposizione del processo, che la condotta assunta dalla madre abbia direttamente e concretamente impedito i rapporti padre-figlio.
2. La contestata validità scientifica del costrutto PAS
Da tempo si assiste in ambito psicoforense, e a cascata anche in quello giudiziario, ad un acceso dibattito fra sostenitori e detrattori della validità scientifica della cd. sindrome da alienazione parentale, originariamente formulata dallo psicologo forense nordamericano Richard Gardner negli anni ‘803.
E’ noto, come dato di esperienza comunemente riscontrato, che nelle separazioni altamente conflittuali, il legame di attaccamento fra un genitore ed il figlio può portare quest’ultimo a porsi in contrasto con l’altro genitore, attraverso l’utilizzo di tecniche più o meno subdole di manipolazione emotiva.
La comunità scientifica ha riconosciuto la presenza, in casi sottoposti alla sua attenzione, di modalità comportamentali nel genitore, tese intenzionalmente a controllare la lealtà dei figli4, ma si è divisa rispetto al tentativo di sistematizzazione in termini di patologia, giungendo a ritenere più corretto definire il fenomeno come di mera Alienazione Parentale, escludendo il riferimento ad una Sindrome.
La letteratura è unanimemente concorde nel sostenere che preservare la bigenitorialità, anche in seguito alla separazione dei genitori, costituisce fattore protettivo per lo sviluppo psicofisico dei figli5.
Il concetto di alienazione è in verità oggi ricondotto più opportunamente ad un problema relazionale, che si verifica allorché le dinamiche conflittuali della coppia genitoriale condizionano il figlio, tanto da provocare una sorta di scissione interna tra due opposte rappresentazioni dei genitori: da un lato quella positiva del genitore percepito più forte e risoluto nella disputa per l’affidamento; dall’altro quella negativa dell’altro genitore, considerato più debole e meno capace di affrontare il conflitto, apparendo agli occhi del minore come meno significativo.
Si tende ad escludere una definizione in termini di disturbo di personalità, ovvero come sindrome, quanto piuttosto come un fenomeno psicoforense, che rappresenta un fattore di rischio per l’instaurarsi di problematiche affettivo-relazionali nel figlio, triangolato nel conflitto di coppia6.
Di qui la rigorosa presa di posizione ed il monito della Corte: Il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori (pag.28). Il collegio esprime un’apparente ritrosia a sindacare valutazioni proprie della disciplina della psicologia e delle scienze mediche; di fatto si spinge sino a valutare il concetto di abuso psicologico, utilizzato dai consulenti, come indeterminato e vago, di incerta pregnanza scientifica, insuscettibile di descrizione secondo i parametri diagnostici della scienza medica, fino ad arrivare a parlare di ardua definizione secondo le categorie della disciplina psicologica.
In alcuni passaggi parrebbe che con l’Ordinanza in commento, più che voler obiettare in ordine alla validità scientifica della sindrome, il collegio appaia più interessato a contestare l’uso disinvolto e acritico fatto dai giudici di merito delle perizie e consulenze tecniche.
Le critiche dei giudici di legittimità si appuntano in particolare sulla carente motivazione dell’organo giudicante, sulla tendenza ad appiattire le valutazioni su quelle operate dai consulenti tecnici, senza alcuno sforzo motivazionale.
Il colpo di grazia, se così si può dire, alla riconoscibilità del fenomeno “alienazione”, la Cassazione lo assesta nel momento in cui arriva a sostenere che la tesi della condotta materialmente alienante non ha fondamento scientifico, produce una distorsione consistente nell’indebita correlazione fra il supposto abuso psicologico ed il grave pregiudizio previsto dalla norma dell’art. 330 c.c.
Siffatte ipotetiche condotte, secondo la Corte, non possono essere ricondotte a forme di violenza, che viceversa il draconiano rimedio della decadenza dalla responsabilità genitoriale richiederebbe, ai sensi appunto dell’art. 330 c.c.
Si afferma pertanto il predominio assoluto della valutazione da effettuarsi esclusivamente a cura del giudice, sulla base di costrutti e di indagini puramente si stampo fattuale e di ambito giudiziario, contro ogni tendenza a voler delegare il giudizio ad esperti delle scienze psicologiche.
3. Gli orientamenti della giurisprudenza in tema di PAS
Da molti anni ormai quello dell’alienazione genitoriale è uno dei temi costituenti vero e proprio campo di battaglia fra i più combattuti nel panorama del diritto di famiglia interno.
I giudici sono palesemente in difficoltà a maneggiare ricostruzioni e costrutti tipici delle scienze psicologiche, le quali notoriamente non possono avere lo stesso gradiente di verificabilità scientifica proprio di altre scienze, prima fra tutte la medicina.
Diversi e sorprendentemente opposti gli esiti ai quali sono pervenuti negli anni i precedenti giurisprudenziali di merito come di legittimità, ma nell’ultimo anno quest’ultima sembra intenzionata a volersi assestare su una posizione di rigetto di qualsiasi forma di riconoscimento alla teorica dell’alienazione parentale.
A partire quantomeno dalla pronuncia del 20 marzo 2013 n. 70417, la Corte Suprema aveva espresso una forte critica alla diagnosi di “sindrome di alienazione parentale”, in allora accolta dalla Corte d’Appello di Venezia8, in quanto teoria ritenuta priva di basi scientifiche. Già allora, anche al giudice veneziano veniva imputato di aver perseguito l’interesse del minore al di là dei principi di bigenitorialità e della necessità dell’ascolto del minore, argomentando che la PAS è una teoria molto controversa e non consolidata sul piano scientifico, poiché il DSM non la riconosce come sindrome o malattia, inserendosi in tal modo nel dibattito sulla riconducibilità o meno della PAS all’interno del noto manuale sulla classificazione dei disturbi mentali – il DSM – difettando, si affermava, dei riscontri necessari ad assicurarne la validità scientifica.
Si parlò allora di sentenza ideologica9, che utilizza il riferimento ad alcuni lavori di autori in lingua spagnola negazionisti della PAS10, misconoscendo viceversa le centinaia di studi che attribuivano validità scientifica alla teoria di Gardner. Con la successiva Ordinanza del 17 maggio 2021 n. 1321711, dello stesso Consigliere Estensore Rosario Caiazzo, è stata criticata la scelta di far discendere dalla diagnosi di una patologia, perfino ove indiscussa, una presunzione di colpevolezza o inadeguatezza genitoriale, richiedendosi a tal fine una valutazione in fatto dei comportamenti giuridicamente rilevanti, e affermandosi che nel processo si giudicano le condotte, non la persona. Si ribadiva che i comportamenti pregiudizievoli non vanno accertati con una consulenza tecnica, bensì attraverso tutti i mezzi di prova che il giudice ha a disposizione nel giudizio e anche attraverso l’ascolto del minore che, benché non sia un mezzo di prova, è tuttavia strumento attraverso il quale il minore partecipa al processo che lo vede coinvolto come parte sostanziale.
Anche in seguito e a più riprese la Corte di Cassazione ha affermato, da ultimo con la recentissima Ordinanza n. 6538 del 28.02.202212, che ove un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o semplicemente “collocatario”, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità dei fatti, dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, e a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e ad una crescita serena. Principio di diritto peraltro riprodotto pedissequamente anche dalla sentenza qui in esame.
Sul fronte opposto, sembrava avvallare una forma di riconoscimento della PAS la sentenza di Cassazione civile, sez. I, 8.04.2016, n. 6919, tanto da indurre la miglior dottrina a scrivere che La Cassazione apre parzialmente sulla PAS13.
Un precedente di merito che si fece apprezzare per lucidità fu il decreto reso dal Tribunale di Cosenza nel 2015 – 29 luglio14, nel quale il giudice, con ampia e dettagliata motivazione, dava efficacemente conto del percorso tortuoso al quale era stato costretto un padre, da parte di una madre che gli aveva scatenato contro una furibonda campagna di denigrazione, portata fino alla denuncia di molestie sessuali in danno dei figli.
Spicca in particolare nella pronuncia cosentina la peculiare accuratezza dell’indagine svolta dal tribunale, il quale non si limita ad incaricare i servizi sociali e a disporre una consulenza tecnica, come spesso accade, bensì integra tali attività con l’osservazione diretta, da parte del giudice delegato, degli incontri madre-figli e con l’ascolto diretto di questi ultimi, ciò che consente al giudice di verificare direttamente le conclusioni alle quali perviene il perito. Il consulente aveva riscontrato un condizionamento programmato della madre nei confronti dei figli, diretto a logorare e screditare la figura paterna e tutto il suo mondo.
Il Ctu pervenne ad una diagnosi di disturbo relazionale avente le caratteristiche dell’alienazione parentale come descritta nel DSM V.
In quel caso il Tribunale rigettò la domanda di decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre, ma individuò il rimedio in una pronuncia di affido esclusivo al padre, attraverso un passaggio graduale che prevedeva, per un primo periodo di sei mesi, il collocamento dei figli presso una struttura di accoglienza specialistica.
Ad analoga soluzione, quella di un affidamento super esclusivo al genitore alienato, pervenne, in un altro caso di accertata condotta di alienazione genitoriale, anche il Tribunale di Castrovillari con il decreto emesso il 30.06.202015.
4. L’ascolto del minore.
Una buona parte delle motivazioni dell’Ordinanza è dedicata al tema dell’ascolto del minore.
Dalla lettura del provvedimento si evince che il minore era stato ascoltato in precedenza da un giudice nel 2017 e dal consulente nel 2018, ma non dal Tribunale per i Minorenni, né dalla Corte d’Appello nell’ambito del procedimento in questione e ciò nonostante la drastica decisione adottata, comportante la decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre. Inammissibile per la Corte di legittimità e tamquam non esset la motivazione secondo cui il minore non avrebbe potuto che riportare il ragionare della madre.
Ancora una volta la Cassazione16 ribadisce con forza il diritto del minore, in quanto parte sostanziale in siffatti procedimenti, ad essere ascoltato direttamente dal giudice, a pena di nullità del procedimento, non potendo siffatto adempimento essere sostituito da quello effettuato dall’esperto, essendo diversi gli obiettivi e le esigenze alle quali risponde: quelle di fornire al giudice gli strumenti di valutazione per individuare la soluzione più confacente al suo interesse17.
L’età – dodici anni – assume significativa rilevanza, in quanto avrebbe potuto consentire al giudice di valutare adeguatamente la sua effettiva capacità di discernimento, non meno della sua propensione e i suoi sentimenti verso il padre.
Anche in tema di ascolto si conferma l’assoluta supremazia dell’attività del giudice, quale insostituibile mezzo per arrivare ad una verità processuale utile ai fini della decisione, come peraltro confermato dalla direzione impressa dal legislatore della riforma (L. 206 del 26.11.2021, art. 1, comma 23 lettera t)).
5. Al genitore estromesso resta solo la risarcibilità del danno.
Per gli Ermellini il diritto alla bigenitorialità è anzitutto un diritto del minore, e solo subordinatamente afferisce ai genitori, e va comunque declinato dando la precedenza assoluta al primo, rispetto al quale l’interesse dei secondi può assumere carattere anche recessivo, ove collida con quello.
Né può sostenersi che, dato che il figlio ha sempre vissuto con la madre, la sua volontà di non incontrare il padre sia l’effetto di una coartazione materna.
Al contempo si afferma che tutte le considerazioni svolte non incidono (astrattamente) sul pieno diritto del padre di incontrare il figlio e di sviluppare sane relazioni con lui.
Ma nel bilanciamento fra la prospettiva di un bene futuro, dato dal recupero della relazione con il genitore estromesso e la sofferenza immediata che il distacco dal genitore invischiante può produrre, può essere privilegiata la prima, solo se è altamente probabile un esito positivo nel lungo periodo.
Al contempo si ricorda che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena, sulla base del noto criterio dell’accesso.
Resta per la Corte il rimedio risarcitorio rappresentato dall’utilizzo delle sanzioni economiche ex art. 709-ter c.p.c. nei confronti di quel genitore che si sottragga volontariamente alle prescrizioni impartite, pur nella considerazione, ci sia consentito osservare, della scarsa, almeno sino ad oggi, applicazione giurisprudenziale di siffatti strumenti di coercizione indiretta18.
Si può tuttavia riporre una qualche pur moderata fiducia nelle previsioni di cui alla legge delega (L. 206 del 26.11.21) laddove è dato leggere (art. 1, comma 23, lettera b)) “qualora un figlio minore rifiuti di incontrare uno o entrambi i genitori, prevedere che il giudice (…) sentito il minore (…) accerta con urgenza le cause del rifiuto ed assume i provvedimenti nell’interesse del minore. E ancora alla lettera aa) “prevedere che in presenza di allegazioni o segnalazioni di comportamenti di un genitore tali da ostacolare il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con l’altro genitore (…) siano assicurate (…) la concreta attuazione dei provvedimenti adottati nell’interesse del minore” e infine (lettera mm)): “riordino della disciplina di cui all’art. 709-ter c.p.c. (…) con possibilità di adottare (…) provvedimenti ex art 614-bis c.p.c. in caso di inadempimento agli obblighi di fare e di non fare anche quando relativi ai minori”.
Agevole, nel caso di specie, vaticinare un successivo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, seppure con aspettative di poco momento, riconducibili al più ad un riconoscimento poco più che simbolico del danno morale e di un ristoro sempre imparagonabile alla perdita subita19.
La speranza è l’ultima a morire, sembra voler dire la Corte, allorché ricorda che il diritto alla bigenitorialità non è perduto, nella misura in cui esso predica la possibilità di un’ulteriore fase di recupero, attraverso una paziente ripresa dell’opera di assistenza psicologica al minore, e di sostegno al recupero delle competenze genitoriali del soggetto escludente, richiamando altresì al loro imprescindibile ruolo sociale pure i difensori delle parti.
Riuscirà la Corte d’Appello di Roma, dinnanzi alla quale il caso viene rimesso, nel miracolo?
1 aprile 2022
Cesare Fossati
www.osservatoriofamiglia.it