Nonostante vi siano sempre nuovi richiami alla ragione di donne impegnate a difendere i bambini, gruppi minoritari di femministe tentano di negare che la PAS (Sindrome di Alienazione Genitoriale) sia un abuso sull’infanzia. Ma la PAS esiste e le mamme che ne sono vittima cercano aiuto anche presso le stesse femministe che la negano.
Per continuare a negare l’evidenza alcune studiose femministe hanno cominciato a sostenere che benché la PAS “non esista”, invece c’è un’altra cosa chiamata MAS (Sindrome di Alienazione Materna). In sostanza la MAS è una copia esatta della PAS, ma si applica solo quando il genitore alienato è la madre e il genitore manipolatore è il padre.
Secondo tali femministe la PAS sarebbe sessista e invece la MAS no, perché nella sua descrizione usano parole come “patriarcato”, “maschi abusanti”…
Se non fosse una tragedia, sarebbe una barzelletta; sembra quasi una parodia degna di “Crozza nel paese delle meraviglie”
Chi non credesse a questa ricostruzione dei fatti può consultare il documento originale in materia di MAS (autrice la femminista australiana Anne Morris), che riproduciamo parzialmente tradotto in italiano [fonte]:
«Nella vita di una donna può venire il momento in cui i figli non sono più tuoi. Questo momento è qualcosa che spaventa sia la donna che i bambini. Come madri siamo nate con al consapevolezza che prendersi cura di questi bambini è semplicemente il senso della maternità. Per i figli abbiamo combattuto le più grandi battaglie della nostra vita contro uomini violenti e manipolatori. Ma può venire il momento in cui l’uomo violento ha la meglio attraverso un sottile abuso psicologico, la deprivazione materna. E i figli smettono di chiamarti mamma e cominciano ad odiarti. Secondo le madri che ci sono passate è peggio che se fossero morti, perchè il dolore è sempre presente e non può essere superato con il tempo, è come una specie di “morte vivente”.
Della Maternal Deprivation si è occupato in Australia uno studio promosso dal Governo e attualmente disponibile sul prestigioso sito femministra Liz Library a questo indirizzo nella sezione Child Abuse and Domestic Violence:
Liz Kelly ha detto che “per definire qualcosa deve essistere una parola con cui denominarla. Ciò che non ha nome è invisibile e in senso sociale non esistente (1988 114). Quando ho cercato di capire come mai così tante madri che sono vittime di violenza sono colpevolizzate e spesso odiate dai loro figli, mi sono trovata ad identificare un fenomeno che era rimasto non definito nella letteratura sulla violenza contro le donne. Sono stata portate a fare ricerche su questo campo dalla mia esperienza come professionista impegnanta con donne la cui relazione con i figli era stata spezzata. Nei gruppi e facendo terapia ho scoperto la profondità del dolore di aver perso i propri figli, rafforzato dal biasimo che incontravano dalle persone attorno a loro, che aliemntavano ulteriormente la loro auto-disistima come madri. Mi è sembrato strano che una fonte di così profondo dolore non fosse degna di una parola che identificasse questa esperienza. Per queste persone, i loro figli le loro famiglie e comunità sembrava che non vi fosse altro modo di spiegare la distruzione della relazione con i figli se non dire che era colpa della madre.
1. I risultati della ricerca dal 1999
Il progetto di ricerca, condotto nel 1999 (Morris 1999), ha scoperto che in questi casi chi persegue questa violenza maschile contro le donne e i bambini usa una serie di strategie per indebolire deliberatamente il legame madre-figlio. Spesso si tratta del partner della madre o dell padre del bambino e vengono impiegate le stesse tattiche in una serie di diversi contesti abusivi, compresa la violenza domestica e gli abusi sessuali su bambini. L’autore degli abusi usa sia messaggi verbali che azioni concrete per mettere la madre in una posizione per cui anche i figli la possono odiare e disprezzare, insultare e persino commettere abusi su di lei, e ogni azione intrapresa da lei diventa l’ulteriore prova della verità delle dichiarazioni sul fatto che lei merita disprezzo. Questi messaggi non serve siano basate su verità – il loro potere si basa sulla relazione di potere in cui sono trasmessi, sulle figure retoriche usate e sulle risposte emotive che suscitano. Si tratta di propaganda, e operano con forza sui bambini, diventando più credibili della vera esperienza dei bambini sulla loro madre. Entrando in conflitto con le esperienze dei bambini, questi attacchi al senso di realtà dei bambini hanno conseguenze sulla loro salute mentale e sulle possibilità di successivo superamento del problema.
In questa campagna contro la madre, l’alienante manipola e instilla nelle sue vittime umilianti stereotipi delle donne e delle madri. I bambini, stimolati a imitare il comportamento abusivo del loro padre, è probabile che formino futuri rapporti sulla base di questi stereotipi di genere, per cui gli uomini sono incoraggiati a usare il potere e la violenza per i propri fini, e le donne sono degradate e ritenute responsabili di tutti i mali. Mentre dipinge la madre come non amorevole, stupida, folle, bugiarda, dannosa e mostruosa, il padre si ritrae come buono, razionale, vittima, ma eroico. Poichè gli stereotipi hanno un peso culturale i, i membri della famiglia, i membri della comunità e i professionisti facilmente adottano queste immagini senza molta consapevolezza o atteggiamento critico. Egli diventa il ‘povero uomo’ con cui si simpatizza con facilità; la madre diventa ‘la cagna’ che amiamo demonizzare.
Ho chiamato questa campagna contro madre e figlio e la loro relazione ” alienazione materna”. Questo nome sfida la tendenza generale verso un genere neutrale di linguaggio, che nasconde “lo svantaggio delle donne in una vasta gamma di impostazioni istituzionali” (Gatens e Mackinnon 1998 xiv), e ci ricorda che questa è una forma di violenza di genere rivolta alle madri e alla maternità.
By removing gender from the framing of problems of violence, a gender-neutral perspective obscures the role of gender and power in abusive relationships (Berns 2001). The term ‘maternal alienation’ was created also partly as a response to the contentious Parental Alienation Syndrome (PAS) (Gardner 1987), used particularly by men in custody disputes in the United States, and increasingly in Australia, to undermine mothers’ allegations of their violence and abuse towards mother and/or child, predominantly child sexual abuse (Myers 1997; Dallam 1998). A favourite of the men’s rights groups, Parental Alienation Syndrome insists that it is mainly women who alienate their children from their fathers, while being silent about fathers’ attempts to alienate children from their mothers. The term ‘maternal alienation’ subverts this ploy and draws attention to the prevalence of alienation aimed at mothers. The term also has potential to take account of the widespread existence of mother blaming within families, institutions and popular and professional discourses.
As maternal alienation occurs across a spectrum of abuse and violence, I found Liz Kelly’s idea of a ‘continuum’ of abuse helpful, as it acknowledges the interconnectedness of what are often seen as specific forms of abuse such as emotional, physical and sexual abuse (of women and children) (Kelly 1988). The concept of a continuum allows a consideration of the extent to which institutional structures and the practices of health and legal professionals contribute to maternal alienation, for I continue to discover that the alienation begun by the perpetrator is invariably continued and compounded by institutions and professionals who become involved with the family.
Naming maternal alienation has had a number of consequences. The women who were interviewed as part of the original research wished to have services and service-providers educated about maternal alienation, as they had received such negative and destructive responses from services. In addition, service providers who heard about maternal alienation requested that practice responses to maternal alienation be developed. In response to both requests a project was established in Adelaide in 2002, called the Maternal Alienation Project. I was the single project officer, and worked on a number of fronts to educate services about maternal alienation, and develop practice responses to it. The project also aimed to create systems change and influence policy-making.
2. The Maternal Alienation Project (2002-3)
Naming maternal alienation began a process for me of witnessing how a new concept is taken up, or resisted, by institutions and individuals. I realised that naming does not merely reflect an intellectual activity of progressively becoming aware of the world in which we live, but is a profoundly political activity, that challenges existing relations of power. Within the arena of gendered violence, the act of naming assails the contested borders between the speakable and the unspeakable, where what is spoken is monitored by those who wish to define what is ‘true’ and ‘untrue’. Jan Breckenridge discusses this as the interplay of “silences and subjugation”. She explains subjugation as “processes that subordinate or discount certain types of experiences or sources of information, by either ignoring or reinterpreting the content ” (Breckenridge 1999 7-8).
Through my work in the Maternal Alienation Project I became acutely aware of the ways in which the borders of what it is permissible to speak are patrolled. The project, and I as project officer, were exposed to many pressures, some subtle, and some threatening. The most obvious of these was the ongoing attacks from the men’s rights groups, one of which published a press release on their website calling the project “hate politics” and “Holocaust Revisionism” and insisting that the Premier of SA and relevant ministers close the project down. This was accompanied by a campaign of letters to the Premier and Ministers, a barrage of questions directed to the relevant Minister in SA Parliament by the elected member of the ‘Family First’ Party, a Christian political party advocating their conservative view of ‘family values’, personal attacks made on my character to departmental directors, threatening and abusive emails to me, and the slashing of my car tyres in front of my home. Analysing these tactics, I found they mirrored and projected onto a larger canvas the tactics used privately in maternal alienation. It is no wonder that this tiny project, with a budget that could only afford to employ me for three days a week, was finally closed down after eleven months, instead of running for the three years we had planned.
Nevertheless, over this period I worked with two groups of practitioners to develop practice responses to women and children who had been alienated from one another in domestic violence and child sexual abuse. I also met with and conducted training sessions for workers and managers within the Family Court of Australia, Family and Youth Services, SA’s statutory child protection system, the Police, Attorney-General’s Department, a magistrate from Adelaide’s Domestic Violence Court, domestic violence services, community health services, family services, and so on.
3. Mother-blaming
The most profound aspect I continually encountered in my work on maternal alienation was a pervasive mother-blaming, that seemed to inhabit all levels of institutions and communities, of practice and belief. Perhaps this is not surprising if one looks at how Western mothering in the late twentieth and early twenty-first century has been subject to surveillance, judgements, regulation, and how mothers have been dictated to, and sometimes punished by experts of all types (Hays 1996; Smart 1996). Yet mothers’ work is unpaid, largely invisible, and under-valued. Theories such as Bowlby’s attachment theory direct expert eyes to mothers’ shortcomings, yet blind them to all the other significant influences in children’s lives, such as poverty, the wider community, peer groups, fathers, and the presence or absence of violence (Birns 1999).
Many service interventions tend to focus on the deficits of the mother, perhaps accusing her of neglect. However, we need to be aware that the effects of violence and abuse and maternal alienation on the mother child relationship can look just like maternal neglect. As practitioners or outsiders we can encounter situations where mothers are unable to control their children, and where they can appear to be immobilised and apathetic, or angry and frustrated with their children, and feel the task of mothering is far beyond them. Thinking of themselves as bad mothers, they may even feel that the only option left to them is to give up their children. However, rather than being signs of neglect, such a situation can be the result of a relentless campaign to undermine on all fronts a woman’s ability to mother. Children experience that their mother’s authority has broken down – they have been coached to loathe and blame her; they have been told that their mother doesn’t love them, that she’s crazy, that she’s a slut; she is a creature who deserves abuse. These messages are not just given once, but become the tapestry of family life. Such messages are difficult to resist. Professionals also find them difficult to resist, as they accord with cultural perceptions of mothers. As Martha McMahon points out, “Mothers are no longer portrayed as self-sacrificing and all-loving but as untrustworthy or potential enemies of their children” (1995 190)).
4. Invisible perpetrators
As a counterpoint to the culpability of mothers is the invisibility of fathers. One needs the other, for if all attention is directed to the failing mother, we do not see the ways that violent and abusive fathers harm their children. Many researchers have commented on the profusion of ways in which violent men are invisible in the system, and women are held to different standards from men, (Edleson 1998; Burke 1999; Irwin, Waugh et al. 2002). Child protection services, family services all tend to focus their intervention on the mother, and rarely “mess” with the father. Women are held accountable for the effects of his violence, even when they are themselves victims of his violence.
These factors create fertile ground for maternal alienation, which assigns responsibility to women for all wrongs, and conceals the ways that male perpetrators operate to punish, control, and injure. Therefore the two most important principles of any response to address maternal alienation are to support the mother and make visible the tactics used by the perpetrator. These two principles underpin the practice responses developed through the Maternal Alienation Project (Morris 2003).
Principles of Best Practice: Supporting mothers and making perpetrators’ tactics visible
To support mothers it is usually necessary for service-providers to become aware of their own tendencies to blame mothers or hold them accountable for their partners’ violence. This approach recognises that children’s well-being will be enhanced by a positive relationship with their non-offending parent. This works against the cultural grain also in recognising the positive role that mothers can have in their children’s lives. Given appropriate support mothers and children can rebuild their relationships, and mothers can be enabled to support and protect their children in the future.
Effective work in this area also depends on making the perpetrator and his tactics visible and accountable for the violence, abuse and alienation and their effects on women and children. This enables women and children to understand how they were alienated from one another (Laing 1999). By making perpetrators visible, we are shifting back to them the responsibility for the damage, the harm, the trauma they have caused. When women and children understand where their problems have come from, they can take back their power to live the lives they choose for themselves, and not be driven for the rest of their lives by the patterns set up and manipulated by the perpetrator.
A strange paradox emerges in this field of work, which I suspect is the result of our gender-neutral approach, where so-called neutrality constitutes a male view (Hearn 1998) – on the one hand men become invisible in the system when it is largely men who are responsible for violence against women and children, and women are held accountable. But when it comes to the care and development of children which mostly falls to mothers, women become invisible and the significance of their mothering role is not acknowledged. Further, we live in a society that values individualism, and our therapeutic interventions tend to reflect this. We treat children as separate beings, when in fact they are embedded in relationships of care and development. We often work separately with mothers and children, not recognising that after our clients’ hour with us, they return to struggling to live together. These influences effectively create a gap in our services – very little work is done to support the mother-child relationship.
I suggest we need to look differently at how we work with mothers and children after violence, decentralise our importance in children’s and young people’s lives, and find ways of making their relationships with their mothers work. If we work to re-build mother-child relationships after violence we create possibilities for healing in the future. This is the long-term solution to their problems; this is the realistic solution, and if we get it right it acts as early intervention/prevention, as mothers are enabled to support and protect their children.
5. Il rapporto di alleanza sistemica tra madre -bambino
Pertanto una risposta di professionisti all’alienazione materna deve concentrarsi sulla costruzione di un’alleanza tra madre e bambino. La presenza di abuso in genere porta le mamme e i bambini a sviluppare i sentimenti abbastanza differenti degli eventi condivisi nella loro vita. Hanno bisogno di sostegno per imparare a parlare insieme di violenza alla quale sono stati soggetti a e sviluppare attività condivise, e piani per il loro futuro.
Questo non significa necessariamente che mamme e bambini hanno sempre bisogno di incontrarsi con professionisti per rielaborare il vissuto ,ma avranno bisogno di loro proprio spazio e tempo per esprimere il loro dolore, rabbia, frustrazione, e questo è meglio farlo separatamente,da soli. I professionisti devono tenere presente la necessità di sviluppare la comprensione reciproca tra la madre e il bambino in tutto questo processo.
6. Uncover the tactics used in maternal alienation
Where it is possible to interact with programs that work with perpetrators of violence, there is the potential to discover some of the tactics used to divide mothers and children. Work with child sex offenders in programs like Cedar Cottage (NSW), where offenders are required to admit how they planned and set up sexual abuse of children, enforced the secrecy, and undermined children’s relationships of trust (Laing 1999), would be useful also within programs for perpetrators of domestic violence.
Making perpetrators’ tactics visible gives us an important resource for healing those who have been abused – an understanding of the tactics used against them. When perpetrators’ tactics are exposed, women and children can unravel the many misunderstandings they have been subject to, and understand that neither the mother nor the child is the problem – their problems have been created by the manipulations of the alienator (Laing 1999). Once they see the role of the perpetrator in their alienation, they can begin to free themselves from the lies and dynamics he contrived. They can step aside from the destructive patterning that has been set up, and behave in different and more positive ways towards one another.
7. Sviluppare un percorso di vita
Le donne che trovano la forza è lasciano il contesto di violenza e gli abusi riescono a ritrovare la sensazione “di essere la persona che vale”, cosa che si era persa durante il periodo che subiva le violenze. Le donne scoprono che hanno ancora dei valori e una personalità che fu sepolta per anni. Questa “rinascita” può essere rafforzata dai professionisti durante il loro lavoro con le mamme e i bambini, per creare insieme il loro percorso di vita. Formulando chiaramente i loro percorso di vita insieme permette alle donne e i bambini a rielaborare che loro non hanno la colpa di niente e il loro passaggio dalla violenza, cancellando i comportamenti che hanno adottato per sopravvivere ad essa e ai racconti negativi fatte su loro conto.
La cosa utile per le donne e i bambini sarebbe capire che le tattiche di alienazione materna servono a fare cedere le donne sulle loro decisioni ,specialmente in casi di violenze gravi. Per la donna queste tattiche si manifestano nel lavoro di tutti di “intrappolarla” come l’unica colpevole. Dopo aver lasciato il contesto famigliare violento, le donne e i bambini spesso si trovano nella situazione d’intensificazione delle tattiche dalla parte dei loro carnefici per controllarli, e avranno bisogno di un aiuto concreto dove potersi appoggiare con sicurezza, affinché non ritornano nuovamente nelle mani dei loro carnefici e la vita di violenze che hanno vissuto.
8. L’aiuto concreto dei professionisti
Quando avviene l’alienazione materna, le madri sono sempre quelle meno in grado di difendersi. Le parole della madre sono screditate, prima che lei le esprime, e le sue azioni sono oltraggiate prima che lei le prende. Qualunque cosa lei fa, è dipinta come quella pazza, quella cattiva, quella stupida, colei che non può essere attendibile. I figli non le danno ascolto e non collaborano con lei. L’interventi dei professionisti, che esercitano pressioni su di lei per apportare modifiche all’interno della famiglia ad esempio modifiche al comportamento dei bambini, aggravano questa situazione che è destinata a degenerare. Questo serve come “dimostrazione” che è lei, la donna, causa dei problemi.
Ciò che è necessario, in questi casi, è che professionisti comprendono l’alienazione materna come l’operato per screditare le madri, e che è un atteggiamento di non rispetto nei loro confronti. Il lavoro dei professionisti può e deve essere utilizzato positivamente per costruire il rispetto verso la madre dando il giusto peso alle parole e i comportamenti della madre e il bambino.
9. Attivismo e informazione
Professionisti che lavorano su questi casi riportano nelle loro relazioni che i loro lavoro positivo è stato rapidamente annullato dai servizi che ignorano la alienazione materna e involontariamente rafforzano il condizionamento negativo prodotto da alienazione materna. D’altra parte, hanno trovato cambiamenti significativi quando lavoravano insieme con questi servizi per affrontare i problemi della famiglia. Parte integrante di questo lavoro è quello di educare tutti i servizi che interagiscono con queste famiglie circa gli effetti della violenza e dell’alienazione materna, in modo possono sostenere le madri e non diventare una parte del problema.
10. Creating consistency, safety and integrated service approaches.
Perpetrators maintain absolute control over their families by being inconsistent and unpredictable. The inconsistency and distortion of reality that occurs as part of maternal alienation fractures women and children from their own experience, and from being able to trust themselves. What is consistent in their world is their lack of safety.
This pattern of inconsistency and families’ resultant lack of control can be mirrored by services when they take different approaches to mother and family. Those services that are punitive and judgemental and continue to disempower mothers repeat the dynamics of the abuse situation. Families cannot recover while this is their environment – while they are awaiting the next blow, the next senseless act that removes their sense of control and safety. Integrated approaches by all services connected with the family develop consistency in the way a family is treated. This can counteract the many contradictions that the alienator has used to confound his victims and remove their sense of control or understanding.
11. Conclusione
L’autrice crede che queste pratiche richiedano un ripensamento fondamentale della nostra pratica, richiedono il rafforzamento della consapevolezza e della capacità di resistere alla colpevolizzazione materna. Dobbiamo rendere visibili le tattiche nascoste con cui gli aguzzini colpiscono e ridare valore e ricostruire le relazioni mamma-bambino; dobbiamo trattare le mamme con rispetto e restituire loro la potesta’ e l’autorità necessaria al loro ruolo ,lavorando in modo integrato con gli altri servizi creando un ambiente sicuro e coerente per madri e bambini
Nella breve storia del Progetto alienazione materna è emerso che questi cambiamenti sono stati parecchio difficili da realizzare a causa dei continui attacchi perpetrati dalle organizzazioni per i diritti dei maschi. Inoltre la crescente burocratizzazione e standardizzazione delle procedure legate ai servizi hanno costituito un altro fattore che ha reso difficile portare a termine i compiti imposti da queste sfide al termine del progetto,, dietro la pressione di alcuni dirigenti e funzionari politici che erano a conoscenza degli attacchi parlamentari che esso aveva sempre subito il ministro suggerì di cambiare la dicitura:”alienazione materna” con termini meno incisivi. Poco dopo, il progetto si è concluso per mancanza di ulteriori finanziamenti. Tuttavia cio’ non ha coinciso con la fine della nostra storia. Le risorse create durante il progetto e l’informativa data al workshop di formazione sono stati diffusi e continuano a circolare.
Sopravvissuti alla violenza di genere e gli operatori stanno mobilitandosi per distribuire questo materiale, per richiedere una formazione per le loro organizzazioni e per rinnovare la loro prassi.
Si tratta di creare un patrocinio per incoraggiare i cambiamenti all’interno del sistema, e per realizzare questo bisogna suddividersi in ulteriori gruppi di lavoro. Mi viene in mente il singolo fiore i cui semi sono dispersi dal vento e dagli insetti che poi mette radici e crea altre generazioni di fiori.
Non si tratta piu’ di costtuirsi come un target solitario e quindi vulnerabile agli attacchi di genere e ai tentativi di silenzio che ci vengono imposti, ma di offrire sempre piu’ risorse ai molteplici fattori del vero cambiamento, com’è stato per l’idea di alienazione materna, che è cresciuta e ha messo radici.
12. References
Berns, N. (2001). “Degendering the Problem and Gendering the Blame: Political Discourse on Women and Violence.” Gender and Society 15(2): 262-281.
Birns, B. (1999). “Attachment Theory Revisited: Challenging Conceptual and Methodological Sacred Cows.” Feminism & Psychology 9(1): 10-21.
Burke, C. (1999). “Redressing the balance: child protection intervention in the context of domestic violence”. Challenging Silence: Innovative responses to sexual and domestic violence. J. Breckenridge and L. Laing. St Leonards, Allen & Unwin: 256-267.
Dallam, S. J. (1998). “The Evidence for Parental Alienation Syndrome: An Examination of Gardner’s Theories and Opinions.” Treating Abuse Today 8(2): 25-34.
Edleson, J. L. (1998). “Responsible mothers and invisible men: child protection in the case of adult domestic violence.” Journal of Interpersonal Violence 13(2): 294-5.
Gardner, R. (1987). The Parental Alienation Syndrome and the Differentiation Between Fabricated and Genuine Child Sex Abuse. New Jersey, Creative Therapeutics.
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Kelly, L. (1988). “How Women Define their Experiences of Violence”. Feminist Perspectives on Wife Abuse. K. Yllo and M. Bograd. Newbury Park, C.A., Sage.
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McMahon, M. (1995). Engendering Motherhood – Identity and Self-Transformation in Women’s Lives. New York, The Guildford Press.
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Smart, C. (1996). “Deconstructing motherhood”. Good Enough Mothering? Feminist perspectives on lone motherhood. E. B. Silva. London, Routledge.
Andrea Lai
Ho letto con attenzionen il suo studio, col quale sono d’accordo sotto il profilo puramente teorico paritetico che se genitori si è al 50% al 50% deve essere coniato un termine od una patologia.
Ma la realtà e completamente diversa per cui il distinguo appare più ideologico che concreto.
1) PAS sta per Parental e quindi riguarda nessun genitore in particolare. Semmai la MAS è l’opposto della Sindrome di Thurkat.
2) Padre e madre sono figure educative e di riferimento non uguali ma complementari, nel brevemedio periodo per le madri e nel mediolungo periodo per i padri. Un maggior peso delle madri nel periodo di crescita rende più incisiva una PAS rispetto ad una MAS
3) L’imprinting ai figli è passato non solo dalla parola buona o cattiva da essi ascoltata ma anche e soprattutto dall’esempio da essi visto e convissuto.
4) la quasi totalità dei figli è collocata dalle madri e non dai padri per cui è evidente l’altrettanta quasi assoluta prevalenza del numero di casi di Sindrome di Turkat della madre malevola rispetto alla MAS.
5) La PAS non si risolve creandone declinazioni da studiare ma contrastandola.
6) la PAS è un reato di violenza sulla persona e dunque l’unico deterrente efficace è l’intervento immediato e soprattutto deciso di un tribunale.
Cordialità
Andrea Lai
Terni (TR)
Luca RB
Ho trovato questo post che sostiene l’enorme diffusione del fenomeno dei figli che non vogliono vedere il padre quando questo si comporta in modo violento con la madre.
http://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2014/10/14/la-violenza-assistita/
La blogger Ricciocorno che è sempre così prolissa nelle citazioni perché non consulta anche l’articolo della Morris? Magari potrebbe migliorare e finire la traduzione e renderlo disponibile anche a chi non legge l’inglese.
Ma non penso che lo farà, perché questa questione della “alienazione materna” smonta tutta la campagna che equipara il rifiuto di un genitore alla violenza assistita. Nella realtà invece capita molto spesso che i figli si schierino a fianco del padre violento e si alleino con lui contro la madre. E’ veramente triste, ma verosimile. Del resto se ne parla la letteratura femminista deve essere per forza vero, “ipse dixit” secondo il metodo delle citazioni tanto caro al Ricciocorno.
anna massimino
chiedo aiuto a chi mi puo’ aiutare, il mio email e’ annamassimi.am@gmail.com,
sto vivendo io personalmente la MAS da parte del’ex marito Americano che vive qui in italia…mi ha completamente rotto ogni comunicazione con mio figlio di 10 anni, mi ha denunciato con false accuse di molestia minacce e ingiurie(ingiurie li ho ammesse ma altro no) vorrei che qualcuno mi aiuti a trovare la strada giusta per denunciare questo padre schifoso…. vi prego contattatemi
Le tre teste del negazionismo dell’alienazione parentale
[…] autrici del filone degli studi di genere hanno creato a bella posta una definizione alternativa: maternal alienation oppure domestic violence by proxy. Cioè, l’alienazione parentale non esiste, QUINDI quando […]
Il Comitato “Femminicidio in vita” riconosce l’alienazione parentale – 14.2.2021 – Alienazione Genitoriale
[…] sua posizione il Comitato sviluppa un discorso, in cui viene citata una teoria di cui abbiamo già riferito ampiamente su questo blog, la teoria secondo cui in certi casi i padri violenti manipolano psicologicamente i loro figli per […]