24/9/2012 – La decisione del comitato dell’APA di non accettare nel DSM5 la proposta del gruppo di William Bernet sul PAD (Parental Alienation Disorder) ha rinserrato le fila dei critici dell’alienazione genitoriale, che adesso possono sostenere con maggiore forza che la “PAS non è una malattia”.
Ma davvero l’inclusione o l’esclusione dal DSM rappresenterebbe una sorta di “patente di scientificità” per l’alienazione genitoriale?
In questo articolo di Paolo Migone si scoprono le ombre del manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association. Pochi sanno che il futuro DSM5 è stato accusato di aver abbassato le soglie di molte malattie, con il risultato di aumentare enormemente le diagnosi “false positive” e quindi di “psichiatrizzare” larghe fasce della popolazione a vantaggio delle case farmaceutiche. E a lanciare questa accusa non sono pericolose associazione anti-psichiatriche ma altri rispettabili psichiatri capeggiati dai due coordinatori della precedente edizione del DSM Spitzer e Frances.
Ma questo problema non deve sorprendere più di tanto perché si tratta di un noto limite connaturato con il meccanismo stesso del DSM. Infatti il DSM non è effettivamente un catalogo delle malattie scoperte dalla medicina psichiatrica, ma si tratta più semplicemente di un tentativo non ancora riuscito di stabilire un linguaggio comune attendibile tra gli psichiatri, senza la pretesa di stabilire diagnosi dotate di “validità” in senso tecnico.
A questo punto si capisce meglio perché il gruppo capeggiato da William Bernet ha lanciato nel 2010 la sua proposta di includere nel DSM5 anche il nuovo disturbo denominato Parental Alienation Disorder. Dato che il DSM5 è soltanto un elenco di standard convenzionali, l’inclusione di uno schema di riferimento anche per l’alienazione genitoriale potrebbe offrire alla comunità internazionale degli studiosi un minimo comune denominatore per orientare le future ricerche sull’alienazione genitoriale, né più né meno di quanto sia già avvenuto per il resto dei contenuti del DSM.
Il dottor Darrel Regier portavoce della task force sul DSM il 21 settembre 2012 ha dichiarato che l’alienazione genitoriale non verrà inclusa perché non è un disturbo che coinvolge l’individuo e si tratta di un problema di relazione tra genitore e figlio o genitore e genitore. Ma la proposta Bernet prevedeva due opzioni alternative di categorizzazione, alienazione genitoriale come disturbo individuale oppure alienazione genitoriale come problema relazionale. Quindi Regier sembrerebbe lasciare ancora la porta aperta all’inclusione di uno standard per l’alienazione genitoriale come problema relazionale.
Comunque vada, l’inclusione o l’esclusione nel DSM non aggiunge né toglie nulla di rilevante alla realtà dell’alienazione genitoriale e del gran numero di ricerche che sono state svolte su questo fenomeno.
Di seguito l’articolo di Paolo Migone tratto da Psicologia Contemporanea 9/10 2012
Luci e ombre del DSM
A cinquant’anni dalla prima edizione
di Paolo Migone
(fonte: Psicologia contemporanea settembre-ottobre 2012)
Il celeberrimo Diagnostic and Statistical Manual (DSM) dell’American Psychiatric Association, l’associazione di psichiatria probabilmente più influente al mondo, ha visto finora quattro edizioni, anzi sei, se si considerano le revisioni il DSM-I nel 1952, il DSM-II nel 1968, il DSM-III nel 1980, il DSM-III-R nel 1987 (R sta per Revised), il DSM-IV del 1994, e il DSM-IV-TR nel 2000 (TR sta per Text Revision). Mentre il DSM-I e il DSM-II non avevano suscitato motto interesse, dato che riportavano brevi elenchi di diagnosi con qual che sommaria descrizione, la svolta è avvenuta con il DSM-III del 1980, curato da una task force guidata da Robert Spitzer, che proprio per questo incarico alcuni definirono lo psichiatra più influente del XX secolo.
Ma per quale motivo il DSM-III è divenuto così importante? Prima del DSM-III le diagnosi psichiatriche mancavano di attendibilità (reliability): gli stessi disturbi a volte venivano diagnosticati in modo dissimile da psichiatri diversi, Il motivo era che vi erano troppi metodi e teorie sulla diagnosi. Un esempio conclamato era la schizofrenia, che veniva diagnosticata molto più spesso negli USA che in Europa, ma non perché negli USA vi fossero più schizofrenici, bensì perché erano diversi i modi per diagnosticarli. Si può immaginare quanto questo ostacolasse la comunicazione tra gli psichiatri: se, ad esempio, un farmaco veniva testato per curare un disturbo non si era sicuri che i pazienti fossero gli stessi. Il DSM-III quindi aveva l’obiettivo di aumentare l’attendibilità delle diagnosi, ma in che modo poteva farlo se la psichiatria è divisa in tante scuole di pensiero? Per uniformare il campo, non c’era che un’unica scelta possibile: mettere da parte tulle le teorie esplicative e basare le diagnosi solo sull’aspetto esteriore, cioè sulla mera descrizione dei sintomi, e pertanto il DSM-III fu definito “ateorico”, in modo da permettere a tutti gli psichiatri e i ricercatori del mondo di avere un linguaggio comune. Questo risultato fu ottenuto tramite i cosiddetti “criteri diagnostici”, che sono osservazioni semplici dei sintomi, quasi “operazionalizzati”, in cui viene richiesto il più basso livello possibile di inferenza soggettiva da parte dell’esaminatore. Ad ogni tipo di disturbo mentale fu assegnato un numero predeterminato di criteri diagnostici, ad esempio 8 o 9, e per fare diagnosi era necessario che un numero minimo di essi fosse soddisfatto, ad esempio 5, indipendentemente da quali fossero. In altre parole, vigeva una sorta di “democrazia” nei criteri diagnostici, nel senso che ogni criterio aveva lo stesso valore ponderale. Questo sistema si chiama “politetico”, diverso dal sistema “monotetico”, che è vigente in medicina, nel quale un determinato criterio deve essere sempre presente altrimenti non si può fare diagnosi (ad esempio non si può diagnosticare la polmonite solo con la febbre, la tosse, l’opacità ai raggi X, ecc., ma è indispensabile il reperto del bacillo di Koch nell’espettorato, altrimenti potrebbe trattarsi di un’altra malattia, con grosse ripercussioni sulla terapia da adottare). Il motivo per cui il DSM-III non poté sposare il sistema monotetico è semplice: assegnare maggiore importanza a un criterio avrebbe avuto necessariamente implicazioni causali, legate a una teoria della malattia che poteva non essere condivisa da tutti.
Il DSM-III e le successive edizioni, che seguivano la stessa logica, sono stati messi alla prova in tutto il mondo per verificare se si riusciva ad arrivare a diagnosi, basate solo sull’ aspetto descrittivo, che fossero non solo “attendibili” ma anche “valide”. Ebbene, ormai si può dire che questo grande “esperimento umano” durato più di trent’anni sia fallito: come ha affermato lo stesso presidente dell’Associazione Mondiale di Psichiatria, Mario Maj, praticamente non si è ancora riusciti a individuare nessuna diagnosi dei DSM con “validità di costrutto”, ma solo ad innalzarne l’attendibilità. Attendibilità e validità infatti sono concetti diversi: si può, al limite, essere tutti d’accordo su una cosa, che però può non essere vera. Di molte malattie psichiatriche conosciamo ancora poco, non sappiamo bene perché insorgano, abbiamo pochi indicatori biologici. Una prova della bassa validità delle diagnosi è l’alta “comorbilità” (che è un po’ il tallone d’Achille dei DSM), cioè il fatto che a uno stesso paziente spesso vengono assegnate più dia gnosi simultaneamente.
Nel maggio 2013 è prevista l’uscita del la quinta edizione del DSM (chiamato ora DSM-5), a cui un’apposita task force sta lavorando da tempo. Vi è grande aspettativa su come riuscirà a migliorare i difetti dei precedenti DSM. Ma, da quando nel febbraio 2010 ne è stata pubblicata una bozza in Internet (www.dsm5.org), sono scoppiate durissime polemiche. Una grossa campagna internazionale contro il DSM-5, curiosamente guidata proprio dai capi delle task force dei due precedenti DSM (Spitzer e Frances), e forte di una petizione che ha raccolto quasi 15000 firme, è già riuscita a farne slittare due volte l’uscita (per un resoconto dettagliato del dibattito critico sul DSM-5, si veda Spitzer e Frances, 2011) Al DSM 5 viene rimproverato di aver abbassato le soglie di molte malattie, con il risultato di aumentare enormemente le diagnosi “false positive” e quindi di “psichiatrizzare” larghe fasce della popolazione, a tutto vantaggio delle case farmaceutiche (per fare un esempio, la normale tristezza, e le manifestazioni del lutto stesso, rischierebbero di diventare “depressione” e di essere trattate con i farmaci); inoltre sono state proposte nuove diagnosi pericolose e inutili (come la “sindrome da rischio psicotico”), che aumenterebbero lo stigma e anche l’abuso di farmaci, specie nei giovani; sono stati sottovalutati i possibili abusi in psichiatria forense, e così via.
Riuscirà il DSM-5 a correggere alcuni di questi difetti? Non è facile prevederlo. E , riuscirà la psichiatria a trovare un consenso attorno a un sistema diagnostico non solo attendibile ma più valido dell’attuale? Vi è ragione di essere pessimisti: la disciplina è frammentata in diverse scuole e non è possibile fare diagnosi valide basandosi solo sull’aspetto descrittivo, senza una precisa teoria della malattia. Le case farmaceutiche, poi, condizionano in modo pesante la cultura degli psichiatri e, tramite una pubblicità pervasiva, anche dell’intera società. Esse finanziano quasi tutte le ricerche, i convegni, le riviste scientifiche, ecc., “inventando” sempre nuove malattie e inducendo una “cultura del farmaco” che purtroppo incontra facili collusioni nei valori della società consumistica e poco introspettiva in cui oggi viviamo.
(Paolo Migone è condirettore della rivista Psicoterapia e scienze umane)
Riferimenti bibliografici
MIGONE E (2005), «Farmaci antidepressivi nella pratica psichiatrica: efficacia reale», Psicoterapia e Scienze Umane, XXXIX (3), 312-322.
Spitzer R. L., Frances A. (2001), «Guerre psicologiche: critiche alla preparazione del D5M 5», Psicoterapia e Scienze Umane, XLV(2), 247-262.
Sorpresa: la PAS nel DSM c’è già come problema relazionale | Alienazione Genitoriale
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